Intorno al mondo con Dicky - Il mito della caverna di Platone e il cinema
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a cura di Ricardo Preve
LA PERCEZIONE DELLA REALTÀ NELLA “REPUBBLICA” DI PLATONE E LA SUA RELAZIONE CON IL CINEMA
La differenza fra la
realtà, e la percezione della realtà, era tema centrale nell’antica filosofia
greca. Questo è particolarmente evidente nel famoso esempio della caverna nel
Libro VII de “La Repubblica” di Platone.
Platone ci propone di riflettere
sull’immagine in movimento come rappresentazione della realtà: se non fosse che
scrisse la sua opera 2.400 anni fa, sarebbe lecito pensare che si riferisse
proprio al cinema. Ricordiamoci che la voce “cinematografo” deriva dalle parole
greche “kinema” (movimento), e “grafein” (immagine incisa).
Nell’esempio della
“Repubblica”, Platone si domanda cosa succederebbe se un gruppo di uomini (le
donne ricevono scarsa considerazione in questo trattato filosofico) vivessero
tutta la vita in catene in una caverna, in modo tale da poter vedere solo la
parete di fronte a sé. Su questa parete si proiettano delle ombre, create da
oggetti portati in alto da altri uomini che camminano dietro ai soggetti
incatenati. I portatori di oggetti sono nascosti da una parete, in forma simile
al trucco usato dai burattinai per non farsi vedere dal pubblico. La luce che
crea queste ombre proviene da fuochi perennemente accessi nel retro della
caverna.
In questo modo, per
esempio, un uomo che passasse dietro ai soggetti incatenati portando sulla sua
testa una colomba, farebbe sì che l’ombra della colomba si proiettasse sulla
parete di fronte agli uomini incatenati. Con il passare del tempo, questi
uomini finirebbero senza dubbio col pensare che l’immagine della colomba
proiettata sulla parete sia la colomba stessa, e non una rappresentazione della
vera colomba.
Platone descrive questa
situazione con la chiara intenzione (mantenuta anche in altri capitoli di “La
Repubblica”) di diminuire l’importanza di quelli (poeti, pittori, etc.) che si
servono di rappresentazioni della realtà, e di aumentare quella dei filosofi
(casta alla quale lui ovviamente apparteneva) che, secondo lui, avevano il
merito di cercare l’essenza delle cose, e di arrivare alla conoscenza diretta
delle cose, e non delle loro rappresentazioni.
Andando avanti con
questa interpretazione, nell’esempio della caverna Platone indica che, se uno
degli uomini incatenati si liberasse, e si girasse e osservasse come le ombre
che ha guardato tutta la sua vita non sono altro che rappresentazioni di
oggetti, ma non gli oggetti in sé, questo uomo liberato arriverebbe a una
conoscenza molto più perfetta della realtà. Platone ci racconta poi che l’uomo
liberato cammina sino all’esterno della caverna, dove in un primo momento è
accecato dalla luce, ma dal momento in cui i suoi occhi si abituano alla
luminosità della nuova dimensione in cui si trova, riesce a comprendere molto
più chiaramente la natura del mondo, degli esseri che in esso vivono, e degli
elementi che ne fanno parte.
Qui Platone prosegue col
chiaro obiettivo politico, inteso, ovviamente, nel contesto della società ellenistica del secolo IV
a.C. come riferimento agli affari della “polis”, la città-stato dei greci della
sua epoca) di individuare nella casta di re- filosofi l’elemento sociale
incaricato di governare il resto della società. Questa interpretazione diventa palese
quando Platone spinge l’uomo liberato, che è riuscito ad avere una conoscenza
molto più precisa della vera natura delle cose, a tornare nella caverna ed
assumere il governo dei suoi compagni incatenati, i quali non hanno lo stesso
livello di conoscenza della realtà, ma solo possono dedurre dalle ombre che
vedono di fronte a loro cosa la realtà potrebbe essere.
Sino a qui, la visione di Platone riguardo la rappresentazione della realtà. Ma come si relaziona questo con il cinema della nostra società contemporanea?
Il mio primo pensiero, basato in più di 20 anni di esperienza professionistica, è che la metafora utilizzata da Platone è rilevante tanto per il cinema di finzione, come per i documentari. E, aggiungerei come un corollario, credo che nell’ultimo paio di decadi queste due sfere del cinema hanno visto avvicinare i loro percorsi, soprattutto in quello che si riferisce al linguaggio utilizzato per raccontare le storie di ognuna, siano queste fittizie, o reali.
Forse sarebbe opportuno studiare prima la relazione fra il mito della caverna di Platone e il cinema documentario, dato che questo è visto nella cultura popolare come una rappresentanza più diretta della realtà, rispetto al cinema di finzione. Potremmo allora forse stabilire un parallelismo fra l’uomo liberato, che esce dalla caverna per conoscere il mondo, con la figura di una regista di documentari come, per esempio, la mia ammiratissima egiziana Jehane Noujaim, che uscì nelle vie del Cairo, e particolarmente nella piazza Tahrir, nel 2011, per girare le immagini della rivolta popolare contro il regime di Hosni Mubarak, e fu nominata all’Oscar per il suo documentario “The Square”. C’è un momento in particolare in questo documentario - quando la telecamera registra immagini dell’interno di un pianterreno di un palazzo, mentre fuori nelle strade i soldati egiziani sparano contro i manifestanti - che mi ricorda la metafora di Platone: la regista desidera uscire dalla caverna, ma le forze del male glielo impediscono.
Per il cinema di
fiction, propongo un’analisi del film “The Truman show” (1998), con Jim Carrey
nel ruolo principale, con la regia del nordamericano Peter Weir. In questo film
vediamo anche un contrasto fra la percezione della realtà, e la realtà
effettiva: il personaggio di Carrey non sa, all’inizio del film, di vivere
dentro un programma di televisione, pur intuendo che esiste un mondo aldilà di
quello che egli può percepire con i suoi sensi, e va alla ricerca di
quell’essenza della vita che gli è negata dai produttori televisivi. Verso la
fine del film, quando Carrey annuncia la sua decisione di abbandonare il set,
il creatore del programma gli implora di rimanere nel mondo inventato per lui.
Carrey è stato un uomo di caverna tutta la sua vita, ingannato dai burattinai
della finzione, ma nel momento culminante della storia decide, come l’uomo
liberato dalla caverna di Platone, di rompere le sue catene e scoprire la vera
essenza del mondo.
Vorrei qui estendere
l’analogia a un terreno nel quale forse mi guadagnerò abbastanza opposizione da
parte di altri che la pensano diversamente: nello stesso modo in cui Platone
suggerisce che l’uomo liberato debba tornare nella caverna e governare i suoi
compagni incatenati, io credo che noi registi non possiamo affidarci solo agli
studi accademici per esercire la nostra professione, ma piuttosto dobbiamo
vedere il mondo in prima persona e, nutriti dalle esperienze che accumuliamo nel
contatto diretto con la realtà, dobbiamo tornare al mondo del cinema per
raccontare storie che - siano esse fittizie o reali - si basino su una
conoscenza solida della natura umana acquistata attraverso esperienze di vita,
e non per mezzo di studi teorici.
Alcuni potranno dire che
con questo giustifico la mia carenza di studi accademici di cinema. Può darsi
che qualcosa di questo ci sia, e non tolgo ai miei critici tutta le ragioni. Ma
preferisco essere qualcuno che è fuggito dalla caverna e dalle catene, e ha
avuto l’opportunità di conoscere il mondo in modo molto reale, piuttosto che colui
che ha vissuto tutta la sua vita rinchiuso nel buio di un cinema, e conosce il
mondo solo attraverso le immagini che vede proiettate su una parete.
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