Al termine della lettura di questo libro, dopo avere ripercorso la traiettoria che conduce Nicola Panevino dal suo ufficio al tribunale fino al plotone di esecuzione, resta, oltre a tanta commozione, una domanda forse non banale.
Perchè?
Perchè Panevino, giovane magistrato al quale si schiudeva una brillante carriera, sposato con una donna meravigliosa e appena diventato padre, mette tutto a repentaglio scegliendo di entrare nella Resistenza? Perchè compie la scelta più rischiosa, quando per garantirsi una vita piena di soddisfazioni gli sarebbe bastato tenere un basso profilo, uniformarsi anche solo esteriormente all’ideologia fascista, continuare il suo lavoro quotidiano, magari illudendosi di mantenere il dissenso interiore come alibi morale? Non esporsi troppo, tirare avanti, compiacere i gerarchi ed i loro alleati nazisti, aspettare tempi migliori… Non era ciò di cui la moglie lo implorava? Non era ciò che facevano tutti gli altri?
Certo, Nicola Panevino non è come tutti gli altri. Lo dimostra coi fatti. Mette deliberatamente a rischio la carriera, l’agiatezza, la sicurezza: mette tutto in gioco e perde tutto, e finisce la sua esistenza in mano ai carnefici, senza neanche la consolazione di sapere se il suo sacrificio sarebbe servito a qualcosa, se sarebbe stato ricordato nel futuro. Muore combattendo da volontario una battaglia di cui non poteva conoscere l’esito. Perchè?
Il libro ci mostra diversi aspetti della personalità di Panevino che devono avere influito sulla sua scelta: il forte senso della giustizia, la fede cristiana, il sentimento di affettuosa solidarietà verso gli umili. E poi ci sono le frequentazioni con un ambiente stimolante come quello di Giustizia e Libertà. Ma, senza trascurare l’importanza dei condizionamenti culturali, e quella del caso che governa le nostre esistenze, c’è un episodio, tra i tanti narrati in questo libro, che può guidarci verso una risposta. Mi riferisco al ripugnante funzionario che, un giorno, costringe Panevino a uscire dal suo ufficio ed a ritornare all’esterno del tribunale per salutare romanamente la sentinella, dopo che il giudice si era dimenticato di farlo al suo arrivo perchè assorto in una conversazione. E’ un dettaglio che meglio di tanti esempi, magari ben più drammatici, ci permette di capire l’intima, pervasiva odiosità di un regime totalitario: di un regime, cioè, dove è obbligatorio avere le idee dei Capi, dove è doveroso manifestare, sempre con il massimo zelo, l’ossequio alle parole d’ordine, ai cerimoniali, al Pensiero Unico. Un mondo dove non c’è posto per le opinioni personali, dato che il Duce ha sempre ragione.
Un mondo di schiavi.
Anche se abbiamo studiato un po’ di storia, e siamo quindi informati sulle tragedie in cui il Paese fu gettato dalla dittatura, possiamo percepire solo in parte l’atmosfera in cui Panevino visse e maturò la sua decisione. Per nostra fortuna, infatti, noi non abbiamo mai avuto alcuna esperienza di che cosa volesse dire vivere sotto il Fascismo. Non abbiamo mai dovuto affrontare le quotidiane umiliazioni, i soprusi piccoli e grandi, l’ingiustizia eretta a sistema politico. Ecco perchè ci appare, come per un’illusione ottica, che uomini come Panevino avrebbero potuto rifugiarsi nella loro sfera privata per attraversare indenni la tempesta. In realtà non c’era un privato dove isolarsi. Non si poteva pensare di chiudere il regime fuori della porta di casa. Il Fascismo bisognava accettarlo, rinunciando ad ogni forma di dignità personale, o combatterlo.
Panevino decise di combatterlo, non per un’astratta fede politica, né perché spinto dalle circostanze, ma per rispetto della propria dignità. Ed è grazie al sacrificio degli uomini come lui se oggi noi abbiamo perso la memoria stessa di quanto mortificante fosse vivere sotto la dittatura.
Panevino fece la scelta più difficile, in fondo, per evitare che la dovessimo fare noi.