Le letture che propone Paola - gli scompaginati

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Le letture che propone Paola

NUOVE PROPOSTE
a cura di Paola Calleri

Buonasera scompaginati! Vi sottopongo stasera ,  decisamente in controtendenza rispetto all'andamento sempre più introspettivo delle nostre letture, una recensione da "Robinson" dell'ultimo romanzo di Don Winslow, "Ultima notte a Manhattan", che mi ha assolutamente intrigata, com'era inevitabile, essendo la sottoscritta: 1) una irriducibile nostalgica dei romanzi di Raymond Chandler, e dei suoi personaggi capaci di essere,  al contempo,  estremamente cinici e disincantati e romantici fino al midollo (come dimenticare "Il grande sonno", "Il lungo addio", "La ragazza nel lago"? Quale lettrice non si é innamorata di Philip Marlowe?); una appassionatissima lettrice di James Ellroy, lo scrittore più spietato attualmente in attività, quello della sua generazione che ha più indagato il cuore nero degli uomini (primi fra tutti, "Dalia nera" e la sconvolgente (non per modo di dire!) autobiografia "I miei luoghi oscuri"); 3) una vera fanatica dell'epopea Kennedyana, in questo momento  felicemente sprofondata nell'ipnotica biografia di Marylin Monroe scritta da Joyce Carol Oates,  stupefacente nella sua capacità di prendersi tutte le licenze letterarie di questo mondo e ciò nonostante rendere, con estrema verosimiglianza, sia il complicatissimo profilo psicologico di Marylin,, sia  la rovente atmosfera culturale e politica degli anni della sua vita …. 

Da ultimo: Don Winslow é lo scrittore che, mentre  Trump farneticava di costruire il muro tra il Messico e gli Stati Uniti, ha denunciato nei suoi romanzi la drammatica realtà da cui i messicani fuggono, ovvero  quella di una nazione dove i narcotrafficanti sono padroni, in collusione con forze dell'ordine corrotte, e già solo per questo meriterebbe di essere letto…. 

 Buona lettura!

"di Claudia Morgoglione Un’eterna, irrisolta, magnifica ossessione. Sono trascorsi circa sessant’anni, eppure l’America non ha mai pareggiato i conti con quel periodo della sua storia che ha come protagonista John Fitzgerald Kennedy. Epoca che più in chiaroscuro non si può: luci e ombre, carne e sangue, splendori e miserie, speranze e ricatti. Incarnati non solo da lui, Jfk, ma da coloro che gli ruotavano attorno: Bobby, Jackie, Marilyn. E sullo sfondo, minaccioso, il genio maligno ingannatore di J. Edgar Hoover. Il lato positivo è che, rimasta sospesa nell’immaginario collettivo, questa vicenda non ha mai smesso di alimentare, e alla grande, l’immaginario letterario. Soprattutto in un genere, il noir, in cui l’oscurità prevale sulla luminosità per statuto. E che dunque, più che sulle conquiste politiche e civili del presidente assassinato a Dallas, si è da sempre concentrato sulle sue debolezze, sulle amicizie pericolose, e soprattutto sul ruolo ambiguo (a dire poco) dell’Fbi di allora. Massimo esempio della tendenza, American Tabloid di James Ellroy, affresco tenebroso nonché padre di tutte le ossessioni kennedyane- hooveriane a stelle e strisce. Ed è rifacendosi a questa tradizione, arrivata fino ai giorni nostri ( vedi fra i tanti November Road di Lou Berney, HarperCollins, uscito in Italia due anni fa) che un maestro del crime contemporaneo, Don Winslow, confeziona una nuova, sorprendente avventura: Ultima notte a Manhattan, in uscita per Einaudi Stile libero. Per i tanti lettori italiani che amano lo scrittore americano, che hanno apprezzato il pathos e le virtù profetiche della sua serie sui cartelli messicani o la forza e la precisione nei dettagli dei suoi polizieschi metropolitani, questo libro rappresenta una deviazione dal sentiero noto. Riuscitissima, però. Perché Winslow stavolta non solo si addentra nel terreno, affascinante e potenzialmente pericoloso, del fanta- noir storico. Ma lo fa abbandonando la consueta, cristallina limpidezza dello stile e della scrittura. Per calarsi in un’altra scrittura e a un altro stile, meno “ classici”, meno controllati, più torrenziali e anarchici: quelli tipici dei maestri dell’hard- boiled, Dashiell Hammett, Raymond Chandler. O il leggermente meno raffinato Mickey Spillane, l’unico citato esplicitamente, e in più di una occasione, nel romanzo. E se siamo in zona hard- boiled, il protagonista non può che essere un detective privato, individuo per definizione fuori dal sistema: si chiama Walter Whiters, ha un passato nella Cia e un presente in un’agenzia newyorchese che cerca le magagne del prossimo su commissione. Siamo alla fine degli anni Cinquanta, e lui, forse per caso o forse no, viene in contatto con la famiglia più in ascesa d’America: i Keneally, ex contrabbandieri irlandesi poi ripuliti dai soldi e dalla determinazione a vincere. Joe – affascinante e carismatico, ovvia controfigura di Jfk – è un senatore in odore di corsa alla Casa Bianca; Madeleine è la moglie perfetta, upper class, elegantissima, first lady ancora prima di diventarlo; Jimmy il fratello minore di lui che gli guarda le spalle, che fa i lavori sporchi, nemico mortale di Hoover ( unico personaggio per il quale Winslow utilizza il nome vero). Il problema è che Joe è sessodipendente e ha tra le amanti la diva del cinema Marta Marlund, la donna più sexy, più esplosiva mai vista, dipendente da alcol e pillole e disperatamente innamorata del futuro presidente… inutile dire che ogni riferimento a Marilyn Monroe non è puramente casuale. Sullo sfondo, fenomeni artistico- culturali come il jazz, sociali come la persecuzione contro gli omosessuali, storico- politici come la guerra fredda con i sovietici (l’autore dimostra di aver digerito la lezione di John le Carré) o la caccia alle streghe. È in questo contesto che si dipana la ragnatela noir del romanzo. In cui non ci sono buoni e cattivi, ma solo una rete di segreti e bugie difficile da sciogliere. E in cui l’unico elemento irriducibile è il romanticismo del protagonista, come il Marlowe di Chandler ci ha insegnato. Quanto ai Kennedy, la cui parabola qui si ferma prima della conquista della Casa Bianca, Winslow non propone interpretazioni inedite, non indulge nella dietrologia, tiene bassissima la soglia del complottismo. Vuole solo mostrarci quel mondo, quelle persone così straordinarie e però così fragili, insieme ai loro comprimari: scrittori maledetti, guardaspalle arcigni, spioni consumati, gay costretti a nascondersi. Il risultato è un affresco movimentato, pieno di ritmo, dipinto con partecipazione emotiva e un pizzico di nostalgia: sentimento che ci assale di fronte a momenti della storia irripetibili, nel bene e perfino nel male, e che ci sembra di aver vissuto anche se non c’eravamo. Un’esperienza dolceamara, che evoca le note di un sassofono jazz dell’epoca: da leggere, magari, ascoltando gli album del primo John Coltrane."




Buongiorno scompaginati, due segnalazioni....

 

Daria Galateria 

 

Il compagno di cella è un armadio; « un uomo e mezzo» che si è fatto tatuare sulla schiena la vita («Life is a bitch and then you die», è una troia, e poi muori) e sulle spalle e la parte alta del petto il suo amore per le Harley- Davidson. È incolpato di aver accoppato sulla sua moto un informatore degli Hell’s Angels del gruppo di Montréal, quelli che controllavano il traffico di droga della provincia, e che, solo nel conflitto con i Rock Machines poi assorbiti dai Bandidos, tra il 1994 e il 2002, avevano fatto centosessanta morti. Si chiama Patrick, e, con quella stazza, è molto rispettato; e quando, il 4 novembre 2008 — il giorno dell’elezione di Obama — gli mettono in stanza uno nuovo, si informa. Il codetenuto — che è il narratore dell’ultimo romanzo di Jean-Paul Dubois, Non stiamo tutti al mondo nello stesso modo, ora da Ponte alle Grazie nella vibrante traduzione di Francesco Bruno — è fermo e gentile, e non si capisce come sia finito nel carcere di Bordeaux ( il quartiere di Montréal in Québec, Canada: 1357 detenuti, 82 giustiziati per impiccagione fino al 1962). Al colosso, beato lui, il nuovo arrivato racconta tutto; noi lettori restiamo per ora, e fin quasi alla fine, curiosi e all’oscuro del delitto per cui è dentro. « Hai fatto bene » gli dice subito Patrick, e per il momento è tutto quello che sappiamo. Il narratore si chiama Paul, ma questo era prevedibile, perché, da venti romanzi in qua, è il nome di tutti i protagonisti di Jean-Paul Dubois. Dubois è uno scrittore schivo, anche se è stato gran reporter (specie dagli States) per il Nouvel Observateur, e con i romanzi ha avuto premi (con quest’ultimo, il Goncourt), e adattamenti al cinema ( Kennedy e io, per esempio) e in tv. Li scrive nel mese di marzo, dal primo al trenta del mese, e vive a Tolosa, riservato e vestito in modo informale, con una simpatica famiglia, con cani e alberi. Quest’ultimo Paul si chiama Paul Hansen, ed è figlio di un pastore luterano, altissimo e bello, nato nello Jutland. Paul invece faceva il guardiano, e tuttofare, di un condominio di medio lusso in un quartiere di Montréal non lontano dalla futura prigione. Questo consente a Dubois di usare dei trucchi narrativi irresistibili: passare dalle brutalità estreme del carcere al tosaerba e alla piscina condominiale — e in realtà alla violenza delle vite minuscole. Paul è servizievole, abile, amato da tutti; combatte le disfunzioni di un condominio cagionevole come un organismo vivente, e le meccaniche svalvolate dei rapporti tra i 56 inquilini; e così spuntano senza parere figure di violenza pari a quella carceraria. C’è un residente che fa il casualties adjuster, riduttore dei risarcimenti; di mestiere cioè deve infangare i morti per conto delle società di assicurazione: la salute di un morto può influire sull’ammontare dell’indennizzo. Rispetto a un morto bon vivant, una «leale sessualità familiare» lubrifica la gratifica di una vedova. Però gli estroversi che escono e fanno sport valgono di più di quelli che leggono o guardano la tv. Per un assicuratore, il decesso di un dirigente d’azienda newyorkese è una brutta faccenda, dieci o venti volte l’indennizzo di un allevatore di cavalli del Montana. Il compito del condomino è scoprire che il morto attivo e atletico aveva abitudini turpi, e dissimulati acciacchi. Questo belluino universo condominiale è comunque presentato con grazia, che è il segreto mirabile della scrittura di Jean-Paul Dubois. In carcere, anche Patrick è sempre più simpatico. L’avvocato non lo «sfagiola proprio » , ha i mocassini con le nappine, e lui ha bisogno di un mafioso che faccia impensierire il giudice, uno « tipo Javier Bardem » ( l’attore, cioè). Gli hanno messo in mano una Bibbia, e scopre che è un mondo di duri: «Io vi destino alla spada», «sarà lapidato o trafitto di frecce»; «l’uomo che si abbrutisce con una bestia dovrà essere messo a morte, e anche la bestia » : «No, ma questi qua sono proprio fuori di cotenna » . Il dentista che gli ha estratto un dente (non li curano mai, li levano) è avvertito: «Appena metto piede fuori di qui seguo quel rottinculo e lo spacco in due». Poi c’è la natura. Col padre Paul torna a Skagen, sulla punta dello Jutland, dove si parla solo di aringhe, e tra i silos scossi dai venti bisogna spazzare le chiese, che la sabbia seppellisce. Paul ama un’indiana algonchina, pilota di piccoli aereo-taxi (atterra, seguendo le stagioni, su galleggianti, ruote o pattini) su laghi disseminati di isole, e allora sono paesaggi immortali, che purificano tutto. Nell’inframondo algonchino, i vivi e i morti si rasentano; così, nella cella di sei metri, anche Paul può far venire i suoi cari e i suoi cani trapassati, ma che non mancano di tenergli compagnia. Così, con i suoi fantasmi — la madre, splendida sessantottina col suo cinema d’essai che passa a Tolosa, per lo sconforto del marito, Gola profonda e altri film porno, i minatori di amianto nella città di Tetford Mines, trivellata di buche, fino ai lutti più recenti — trascorrono vent’anni di " civiltà". Paul non si pente, col riduttore di pena rifiuta di parlare; sembra che tutti i suoi impegni siano stati preservare la natura, soccorrere gli umani e fare i piccoli lavori di manutenzione in cui è maestro. Ma dunque che ha fatto, che gli hanno fatto, per finire così in cella? 

 


Gli Scompaginati - circolo di lettura - via assarotti 39 - genova ITALY
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