Le letture che propone Paola
Buongiorno scompaginati, due segnalazioni....
Daria Galateria
Il compagno di cella è un armadio; « un uomo e mezzo» che si è
fatto tatuare sulla schiena la vita («Life is a bitch and then you die», è una
troia, e poi muori) e sulle spalle e la parte alta del petto il suo amore per
le Harley- Davidson. È incolpato di aver accoppato sulla sua moto un
informatore degli Hell’s Angels del gruppo di Montréal, quelli che
controllavano il traffico di droga della provincia, e che, solo nel conflitto
con i Rock Machines poi assorbiti dai Bandidos, tra il 1994 e il 2002, avevano
fatto centosessanta morti. Si chiama Patrick, e, con quella stazza, è molto
rispettato; e quando, il 4 novembre 2008 — il giorno dell’elezione di Obama —
gli mettono in stanza uno nuovo, si informa. Il codetenuto — che è il narratore
dell’ultimo romanzo di Jean-Paul Dubois, Non stiamo tutti al mondo nello stesso
modo, ora da Ponte alle Grazie nella vibrante traduzione di Francesco Bruno — è
fermo e gentile, e non si capisce come sia finito nel carcere di Bordeaux ( il
quartiere di Montréal in Québec, Canada: 1357 detenuti, 82 giustiziati per
impiccagione fino al 1962). Al colosso, beato lui, il nuovo arrivato racconta
tutto; noi lettori restiamo per ora, e fin quasi alla fine, curiosi e
all’oscuro del delitto per cui è dentro. « Hai fatto bene » gli dice subito
Patrick, e per il momento è tutto quello che sappiamo. Il narratore si chiama
Paul, ma questo era prevedibile, perché, da venti romanzi in qua, è il nome di
tutti i protagonisti di Jean-Paul Dubois. Dubois è uno scrittore schivo, anche
se è stato gran reporter (specie dagli States) per il Nouvel Observateur, e con
i romanzi ha avuto premi (con quest’ultimo, il Goncourt), e adattamenti al
cinema ( Kennedy e io, per esempio) e in tv. Li scrive nel mese di marzo, dal
primo al trenta del mese, e vive a Tolosa, riservato e vestito in modo
informale, con una simpatica famiglia, con cani e alberi. Quest’ultimo Paul si
chiama Paul Hansen, ed è figlio di un pastore luterano, altissimo e bello, nato
nello Jutland. Paul invece faceva il guardiano, e tuttofare, di un condominio
di medio lusso in un quartiere di Montréal non lontano dalla futura prigione.
Questo consente a Dubois di usare dei trucchi narrativi irresistibili: passare
dalle brutalità estreme del carcere al tosaerba e alla piscina condominiale — e
in realtà alla violenza delle vite minuscole. Paul è servizievole, abile, amato
da tutti; combatte le disfunzioni di un condominio cagionevole come un
organismo vivente, e le meccaniche svalvolate dei rapporti tra i 56 inquilini;
e così spuntano senza parere figure di violenza pari a quella carceraria. C’è
un residente che fa il casualties adjuster, riduttore dei risarcimenti; di
mestiere cioè deve infangare i morti per conto delle società di assicurazione:
la salute di un morto può influire sull’ammontare dell’indennizzo. Rispetto a
un morto bon vivant, una «leale sessualità familiare» lubrifica la gratifica di
una vedova. Però gli estroversi che escono e fanno sport valgono di più di
quelli che leggono o guardano la tv. Per un assicuratore, il decesso di un dirigente
d’azienda newyorkese è una brutta faccenda, dieci o venti volte l’indennizzo di
un allevatore di cavalli del Montana. Il compito del condomino è scoprire che
il morto attivo e atletico aveva abitudini turpi, e dissimulati acciacchi.
Questo belluino universo condominiale è comunque presentato con grazia, che è
il segreto mirabile della scrittura di Jean-Paul Dubois. In carcere, anche
Patrick è sempre più simpatico. L’avvocato non lo «sfagiola proprio » , ha i
mocassini con le nappine, e lui ha bisogno di un mafioso che faccia
impensierire il giudice, uno « tipo Javier Bardem » ( l’attore, cioè). Gli
hanno messo in mano una Bibbia, e scopre che è un mondo di duri: «Io vi destino
alla spada», «sarà lapidato o trafitto di frecce»; «l’uomo che si abbrutisce
con una bestia dovrà essere messo a morte, e anche la bestia » : «No, ma questi
qua sono proprio fuori di cotenna » . Il dentista che gli ha estratto un dente
(non li curano mai, li levano) è avvertito: «Appena metto piede fuori di qui
seguo quel rottinculo e lo spacco in due». Poi c’è la natura. Col padre Paul
torna a Skagen, sulla punta dello Jutland, dove si parla solo di aringhe, e tra
i silos scossi dai venti bisogna spazzare le chiese, che la sabbia seppellisce.
Paul ama un’indiana algonchina, pilota di piccoli aereo-taxi (atterra, seguendo
le stagioni, su galleggianti, ruote o pattini) su laghi disseminati di isole, e
allora sono paesaggi immortali, che purificano tutto. Nell’inframondo
algonchino, i vivi e i morti si rasentano; così, nella cella di sei metri,
anche Paul può far venire i suoi cari e i suoi cani trapassati, ma che non
mancano di tenergli compagnia. Così, con i suoi fantasmi — la madre, splendida
sessantottina col suo cinema d’essai che passa a Tolosa, per lo sconforto del
marito, Gola profonda e altri film porno, i minatori di amianto nella città di
Tetford Mines, trivellata di buche, fino ai lutti più recenti — trascorrono
vent’anni di " civiltà". Paul non si pente, col riduttore di pena
rifiuta di parlare; sembra che tutti i suoi impegni siano stati preservare la
natura, soccorrere gli umani e fare i piccoli lavori di manutenzione in cui è
maestro. Ma dunque che ha fatto, che gli hanno fatto, per finire così in
cella?