Pensieri nomadi
03/07/2022
COMPAGNI DI VIAGGIO (ai miei figli)
Quasi 22 anni fa siamo partiti (in quattro) per un lungo ed
interminabile viaggio.
Un viaggio avventuroso, appassionante e faticoso che ci ha
condotto, a volte, su percorsi pianeggianti e falsipiani in discesa; altre
volte su ripide salite sterrate con grandi precipizi ai lati.
Un viaggio complesso di cui, già all’inizio, non conoscevamo
veramente la destinazione e le difficoltà ma, ce ne siamo fatti subito una
ragione perché, come spesso dico, il senso del viaggio è nel percorso e rarissimamente
nel punto di arrivo.
Lungo la strada ho incontrato nuovi e vecchi amici che hanno
provato ad accompagnarci lungo specifici tratti e attraverso particolari
paesaggi.
Poi, quasi all’inizio dell’avventura, quando il percorso e
la storia stava cominciando a prendere forma, ho perso la compagna con cui era
nato il progetto ed ho continuato, come ho potuto, con gli altri, con tanta
fatica e voltandomi poco indietro.
… ed il viaggio, così, continuò.
In viaggio puoi fermarti solo per riposarti e riflettere;
anche per prendere appunti, ma non puoi fermarti per tornare indietro veramente
perché rimarresti travolto da quella parte di te stesso che non riusciresti a
schivare e che rimane su ogni passo ed impronta lasciata.
… il viaggio deve continuare.
Abbiamo incontrato sconosciuti che ci hanno accolto in nuovi
mondi e ne ho incontrati altri che hanno allertato i miei sistemi di difesa del
“branco”.
Durante il cammino ho ritrovato la gioia della scoperta.
Ho ritrovato anche l’amore e, quando finiva, non mi sono
tirato indietro di fronte alla solitudine delle notti.
Notti nel deserto a cui ho affidato i pensieri più segreti e
pesanti che ho provato a filtrare a fatica con la sabbia delle dune e
frantumare, quando necessario, con le pietre taglienti di lava.
… ma il viaggio doveva continuare.
Nel nostro itinerare abbiamo anche navigato a vista in mari
sconosciuti con onde che avevano forme mai affrontate.
Un marinaio sa cosa vuol dire cavalcare un’onda,
specialmente quelle dei suoi mari ma quando ne affronta di nuove potrebbe
trovarsi incredibilmente a disagio come con quelle piccole del Neusiedlersee, un
medio lago della steppa, tra Austria ed Ungheria.
… e, nonostante tutto, il viaggio era ancora in divenire.
Pur andando nella stessa direzione, molto spesso non abbiamo
condiviso lo stesso mezzo anche se, la sera, abbiamo sempre cercato di incontraci nel luogo programmato della sosta.
Questo viaggio, che dura ormai da un tempo lontano, a poco a
poco si è trasformato.
Da un po’ non ci troviamo più al tramonto, anche se ognuno
di noi dice di saper bene dove andare.
Arriviamo in tempi diversi al campo ed al mattino ripartiamo
da soli; spesso il telefono non ha segnale e la radio ormai è rotta…
… ma il viaggio deve continuare, ancora.
Eppure, sono proprio questi ultimi due compagni di viaggio rimasti
quelli per i quali abbiamo ed ho incominciato questa normale avventura.
Un’avventura sempre più disorganica, apparentemente
solitaria, ma a cui tutti e tre siamo inesorabilmente legati.
In realtà con uno dei due, di tanto in tanto, condivido il
mezzo ed il bivacco raccontandoci le nostre strade e quello che i nostri occhi
hanno fotografato.
Con l’altra, invece, tutto sembra diverso, come se diversa
fosse la ragione e l’essenza dell’essere: la chiamo nella fitta boscaglia della
montagna sentendo molto bene che non è lontana.
Ne percepisco la presenza e so che mi sente… ma non mi
risponde.
Ha sicuramente delle ragioni ma che purtroppo non comprendo
(… e questa maledetta radio non funziona più!).
… ma il viaggio continua, deve continuare, perché così è la
sua natura.
Mi dispero in quelle notti, sempre senza luna, perché non so più
quale possa essere il richiamo del branco.
Il viaggio continua ma non mi capacito come io possa ogni
giorno trovare la forza di proseguire accompagnato solo dall’ombra lontana di
chi avrei voluto accanto per tutta la strada.
Ma non credo all’oblio.
Credo ancora in questa cazzo di strada!
Dove sei? Lo so che mi segui ma perché non rispondi?
Sali a bordo questa volta, ti aspetto in cima alla collina,
prima del tramonto: tuo fratello è qui.
… ed il viaggio continua, sempre, anche se la meta, in
fondo, non sappiamo più quale sia.
13/03/2022
PERCHE' VIAGGIO
Ho capito, alla fine, che viaggio per avere conferme di
pace.
Viaggio per raccontare la mia pace ed “estorcere” racconti
di pacifiche similitudini che vivono e si nutrono, spesso, di sane differenze.
In viaggio, però, più spesso ho incontrato le tracce della
guerra e di antichi e contemporanei orrori.
In viaggio mi piace cercare di testimoniare la pace provando
a trasmettere, con un basso profilo, i valori che ci siamo conquistati con la nostra cultura e lo studio delle altre culture; valori che spesso, però, abbiamo poi consolidato proprio con la guerra.
Viaggio spesso in silenzio ascoltando solo il rumore del mio motore ed una musica scelta con attenzione.
Poi mi fermo e scendo.
Mi piace cercare altri umani o tracce di umanità.
Parlare con le genti delle pianure, dei deserti, delle montagne, del mare, dei villaggi e delle città.
Così ho capito che il concetto di PACE esiste, quasi
esclusivamente, come contrapposizione al concetto di CONFLITTO.
Contrapposizione come necessaria “formula” chimico-fisica della vita.
Il viaggio è "fatica" che non è un termine antitetico di "bellezza".
Anche in viaggio, per apprezzare il RIPOSO, si sperimenta
prima la STANCHEZZA.
Ogni APPAGAMENTO si raggiunge solo dopo il DESIDERIO…
Quando l’appagamento sopraggiunge inaspettato si chiama
REGALO.
Il GIORNO è dopo la NOTTE.
… e così via…
Parlare di viaggi e di pace ha sempre senso, anche e soprattutto in un tempo di guerra (che da qualche parte non ha mai smesso di echeggiare).
Gli umani che ho incontrato mi hanno insegnato che in guerra CI SI DIFENDE ma la pace SI DIFENDE, sempre.
Continuiamo, quindi, a viaggiare…
IN VIAGGIO VERSO
MARTE 13/12/2020
In questi giorni
Elon Musk, proprietario di Tesla e molto di più, ha annunciato di voler vendere
tutto e trasferirsi, quanto prima, su Marte.
Sono estremamente
affascinato dal personaggio anche se non riesco a condividere tutto ciò che
dice, specialmente quando parla di politica e prevenzione sanitaria, ma,
superando questi “piccoli” dubbi, continuo a studiarlo con attenzione e rispetto.
Elon Musk più di
una volta ha stupito i suoi contemporanei ribaltando le consuetudini e
realizzando, quasi sempre, ciò che aveva immaginato.
Mollare tutto e rimettersi
in gioco; spaiare le carte e trasformarsi in qualcos’altro, ritengo che siano
azioni necessarie per dare non solo sapore ma anche un senso di rinnovamento alla
propria vita (certamente è così per me); cercare di trasformare il tempo su
questo pianeta in un intervallo non solo piacevole ma anche utile, produttivo
e, perché no, unpredictable, giovando a noi stessi, potrebbe giovare anche
al socio-sistema: dovrebbe essere una regola da apprendere e praticare, almeno
di tanto in tanto per volerci bene e per voler bene in modalità “brillante”.
Altri (pochi) come
Elon Musk, si reinventano con costante caparbietà inseguendo incredibili
visioni per trovare nuove soluzioni per l’intera umanità: tutto ciò è una fonte
inesauribile di ispirazione e stimola certamente a pensare in grande.
Da piccoli, quasi
tutti abbiamo cercato di attuare modalità semplificate del concetto di “visione”
ma, crescendo, tendiamo a dimenticarcene; gli amici ed i parenti, quasi da
subito (o appena cresci e ti cominciano a puzzare le ascelle) incominciano a non
darti credito.
Se, da grande,
insisti nelle visioni, anche gli altri nuovi amici, e compresi gli sconosciuti,
accentuano questo pre-giudizio.
Proprio staccarsi
dal giudizio degli altri è una delle condizioni emotive più difficile da affrontare
ma, quando ci si riesce (per motivi o credenze “nobili”), ci si sente sicuramente
rinnovati e più forti!
Mettersi in gioco senza
vergogna induce ed aiuta la trasformazione che più è grande e più ti fa godere!
E’ come salire più in alto, in un luogo super panoramico dove si può apprezzare
una visione sempre più completa: reinventarsi in nuovi ruoli significa attuare quello
che io definisco la “sperimentazione continua”.
Questa pratica aiuta
a riconoscere le proprie debolezze e, vestendo i panni di quel qualcun altro - che
sei sempre tu - riesci a sperimentare una sorta di multiverso[1] dove fai
ciò che non hai mai creduto di poter fare se non fossi, anche per un momento, quell’altro,
a volte in un altro tempo e, molto spesso, in un altro luogo.
Così ogni viaggio stimola
questa occasione e sta solo a ciascuno di noi saperla cogliere e metterla in
atto secondo dei giochi di ruolo che possono essere diversi ogni volta che ci si
allontana dalla consuetudine e dal punto di partenza.
Per quanto mi
riguarda, più di venti anni fa decisi di vivere a pieno una esperienza
nomadica, cercando di sradicarmi dai miei luoghi e scoprendo nel “moto”
l’essenza dell’essere.
Fu un’esperienza
unica che spero possa essere ancora ripetibile, anche in altre dimensioni
spazio-temporali alla ricerca non solo di novità ma anche di altri “se stessi”.
Ora alterno il
viaggio a momenti estremamente lunghi di sosta dove una pseudo normalità cerca
(invano) di reinserirsi nella mia quotidianità; la quotidianità di questo
“verso” che, malgrado tutto, credo sempre che non sia l’unico.
Ultimamente ho
imparato a rivivere la partenza anche dalla scrivania, come una specie di Jules
Verne “dei poveri” che cerca di rimettere insieme ricordi, cocci ed idee.
Staccarsi dalla
consuetudine, quando possibile in modalità attiva, alla ricerca di quel nuovo
punto di vista, comporta non solo un refresh del pensiero ma anche del
fisico che lo ospita.
Viaggiare è
essenziale: allunga la vita! Per questo mi piace anche provare a scriverne, certamente
da dilettante, sperimentando così questa condizione anche in forma intangibile.
Tutti gli spostamenti,
sia quelli reali che quelli virtuali, riescono a trasformare alcuni dei sogni
in realtà.
Qualcuno dice che sono
una sorta di fuga dalle responsabilità ma, in verità non credo affatto che sia
così: fugge, invece, chi non affronta l’ignoto e chi non si concede altre
possibilità cioè chi non cerca un suo multiverso.
E’ così che un
diverso punto di vista ti offre nuove soluzioni alle innumerevoli domande che
ti pone una qualunque delle vite che si vivono: ma quale di queste dovrebbe
essere quella che conta di più?
Torniamo al nostro
eroe sudafricano: il suo sogno, sulla scia delle sue visioni e degli enormi successi,
si sta trasformando ora in una nuova realtà.
Guardando lui constato
che sarebbe onorevole, sano e liberatorio sbilanciare il consumo dei propri neuroni
sulle cose che si amano oltre che sulle cose che si “devono”, certamente senza
dimenticarsene; alcuni dicono che è un lusso che non ci si potrebbe permettere…
ma perché?
Mettiamoci ogni
tanto in gioco; rischiando qualcosa o anche quasi tutto, perché no; diamoci
fiducia e cerchiamo di affrontare con serena valutazione le criticità a cui capita
(spesso) di andare incontro. Diamo, di tanto in tanto, delle svolte a 90° alle rotte:
in navigazione, infatti, le virate di circa 90° sono essenziali al
raggiungimento dell’obbiettivo, specialmente quando l’obbiettivo è proprio controvento!
Navigare a vela insegna
a fare scelte ponderate e a non andare in panico quando la situazione diventa
rischiosa ed avversa: solo la calma, il protocollo e la valutazione delle attrezzature
e degli strumenti che si hanno a bordo (ed il loro ottimale utilizzo) ti
permettono di riportare la pelle a terra.
Ed ecco perché ho
voglia di dire che uno dei prossimi viaggi potrebbe proprio essere, anche per
me, navigare veramente verso Marte.
Mi piacerebbe stimolare
nuove visioni su un nuovo terreno fertile insieme al fondatore di Space X,
Iperloop, Boring Company, Starlink e Neuralink…
Sperimentare, perché
no, cosa si prova a diventare l’astronauta ed il colono, biologicamente, più
anziano!
. . . chi viene
con me?
[1] anticipato
teoricamente in qualche modo già dagli atomisti greci nel VII e VI secolo aC,
con Leucippo prima e Democrito ed Epicuro successivamente; il Multiverso fu reinventato
in modalità moderna, sulla base di una concezione a “molti mondi” di impianto quantistico,
da Hugh Everett nel 1957.
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22.11.2020
Un altro prologo ed un viaggio nel paese dove non si dice NO – (1989) (prima parte)
Genova Pegli - aprile 1982
Al tempo cavalcavo ancora la mia Vespa 200 PX rossa mentre il “mio” primo
Ape, che mi aveva portato ad Abu Simbel 2 anni prima, nel 1987, stava marcendo
su un piazzale dietro Corso Sempione.
Ero laureato da poco in architettura con una tesi che parlava di Africa,
tribù e case di fango ed avevo una gran voglia di ripartire; in qualsiasi
direzione.
Non ero più di primissimo pelo perché prima dell’architettura, per tre
anni, avevo provato la strada della medicina, cercando di ricalcare i passi di
mio padre; ma forse i miei piedi erano troppo grossi e, come si dice, “non ci
stavo dentro”. In più, tra un esame e l’altro, avevo anche incominciato a
viaggiare per davvero.
Era stata Nicoletta, sette anni, la sorella di Enrico - con il quale studiavo
anatomia ed istologia svaccato su un divano a Pegli - mentre guardava i miei
appunti “illustrati”, una via di mezzo, dilettantesca, tra i disegni di Frank
Netter e le strisce di Jacovitti, a pormi la fatidica domanda: “Giorgio, ma…
perché studi medicina? Devi fare architettura! Uno che disegna così deve fare
architettura…”.
Ero rimasto un attimo interdetto con quegli appunti in mano da cui
scivolava, sul tappeto, lo schizzo di un’arteria radiale; colto in fallo sul mio
tiepido trasporto per la medicina, guardai imbarazzato suo fratello (ora medico
di successo pluri-specializzato) che ridacchiava, non saprei dire se per
l’affermazione della sorella o se per la tazzina di aceto che sorseggiavo (si,
ogni tanto chiedevo a sua madre un po’ di aceto da sorseggiare tra lo studio di
un muscolo e quello di un tessuto epiteliale).
Sulla strada tra Pegli e Recco ebbi il tempo di riflettere e di prendere la
mia decisione: avrei dato ancora quell’ultimo esame di medicina, su cui ero già
preparatissimo e poi stop, quit! Sarebbe cominciata una nuova avventura
ed un altro corso di vita.
Finalmente diedi l’esame, ma diedi anche la notizia delle mie inquietudini
e prossime scelte in famiglia. Fui immediatamente diseredato ma restai fermo
sulle mie decisioni.
In quella settimana andai a sfogliare con il mio taccuino d’appunti l’elenco
telefonico di Milano al bar Orchidea di Recco, cittadina dove ho abitato per i
miei primi ventidue anni; all’epoca e per noi, provinciali, quel bar era l’equivalente
odierno di Google, in cui trovavi quasi sempre quello che cercavi. Io ci trovai
il numero del Politecnico di Milano, il numero della scuola di yacht design che
faceva per me ed il numero di una famosa casa editrice specializzata (e la più
quotata) in pubblicazioni nautiche.
Sicché un giorno di ottobre, che non ho memorizzato, caricai una grande
valigia, il mio zaino militare (militare che non avevo ancora fatto) e una
specie di tavolo da disegno… - disegnato
da me, con una porzione retroilluminata che, peraltro, non accesi quasi mai - sulla
mia vecchia Daf 33. Erano i tempi in cui
il biglietto dell’autostrada era grande quasi quanto una busta di tipo americano
ed era veramente difficile perderlo.
Quel giorno, passati i Giovi, e poi Bereguardo , “la fabbrica della
nebbia”, mi si presentò quel muro di densa, grigia ed esotica umidità che mi
tenne compagnia negli autunni ed inverni dei successivi 15 anni e che sparì,
quando crebbe la città ed anche la mia esperienza. La nebbia di quel giorno era
particolare, indimenticabile, quasi fantozziana.
Arrivato al casello della A7, pagato il biglietto, la mia straordinaria
utilitaria olandese fece ancora 200 metri e si spense, proprio di fianco alla
prima area di servizio fuori dall’autostrada. Spinsi nel nulla, ancora per
qualche metro, la macchina, e chiesi di poterla abbandonare lì, per almeno una
settimana. Chiamai un taxi che, con l’umidità della nebbia, puzzava di fumo
ancor di più, e riuscii a farmi portare davanti al numero civico di un
condominio di via Faenza; il cancello si intravedeva a malapena dal finestrino
della 128 gialla, a non più di cinque metri; il taxista diceva che quello era
proprio il mio indirizzo ma la casa, dove già abitava mio cugino, non si vedeva
proprio: “non ti preoccupare” disse il mio Caronte, “ti accompagno con la tua
roba fino al cancello…”
Il mio destino mi portò così in pianura, oltre l’appennino ma non così
lontano dal mare (come molti genovesi ancora credono) per ricominciare tutto da
capo.
Mi iscrissi ad Architettura, al corso di Yacht Design dell’ISAD, Istituto
Superiore di Architettura e Design e trovai lavoro, contemporaneamente, come
illustratore ed autore[1]
presso la casa editrice Mursia di Via Tadino 29. Il suo fondatore, il grande Ugo
Mursia, era mancato 10 mesi prima, a gennaio del 1982. Il figlio Silvio, che ne
aveva preso il posto, mi prese immediatamente in simpatia.
Da subito mi convinsi che non avevo perso tempo: nei tre anni precedenti, a
medicina, tra i viali di San Martino, avevo solo studiato un diverso approccio
alla progettazione: quello biologico.
Nella vita, e, come dice il mio amico Paolo Brovelli, nel viaggio, (… e
se non è un viaggio la vita, cos’altro lo è!) non si butta via niente,
esattamente come per il maiale.
E così fu che nel giro di sei anni mi ritrovai con un diploma di yacht
design ed una laurea in architettura in tasca.
Facciamo ora di nuovo un salto in avanti di quei sei anni e un po’ e torniamo
alla Vespa rossa, in una via anonima vicino a Piazzale Corvetto a Milano, nell’autunno
del 1989, ancora molto nebbioso rispetto ai nostri giorni; infatti, negli anni
a venire, la nebbia si sarebbe dissolta, insieme alla Milano “da bere” e,
insieme alla nebbia, anche la giovinezza anagrafica.
Parcheggio davanti a quello che, da qualche tempo ed ancora per poco ,
sarebbe stato lo studio della mia prima esperienza da architetto.
Quel giorno tra i tanti tecnigrafi ed i pochi computer c’era un’aria
strana: si sentiva che qualcosa stava per accadere; i colleghi che già sapevano
mormoravano: solo Daniela sembrava non essere toccata da quella tensione e
continuava a tirare righe su quel grande tavolo verticale dietro di me.
Quel tecnigrafo mi proteggeva dal suo sguardo e potevo tranquillamente
guardare le sue lunghissime gambe scoperte da una minigonna e riflesse nel mio
piccolo monitor da 14”, indisturbato…
Di lì a poco sarebbe arrivata la signora Suzuki, accompagnata dal giovane
Takashi, in rappresentanza di un costruttore giapponese di origine coreana che
era venuto in Italia in cerca di idee ed architetti.
Takashi, glabro trentenne giapponese, passava i weekend avanti e indietro
sulla A1, tra il casello di Milano e quello di Bologna, tirando al massimo la
sua nuova Renault 5 Alpine Turbo e fumando mezzo pacchetto di Marlboro rosse
all’andata e l’altro mezzo al ritorno.
Quello fu il mio primo incontro con la delegazione del Sol Levante a Milano;
ne seguirono poi altri due.
Il “mio capo”, Andrea, non più anziano di me e, quindi, ancora molto
giovane, volle coinvolgermi da subito in quel probabile progetto. Giorgio, l’architetto
viaggiatore che parla inglese e si inventa rapidamente qualcosa in molte lingue,
sarebbe stato utile in un viaggio di lavoro così esotico.
Quando capii che ci sarebbe stata una qualche chance, mi giocai da subito
tutte le carte che avevo e quel biglietto per Tokyo arrivò effettivamente nel
giro di meno di un mese.
La signora Suzuki, sposata da 10 anni con un emiliano e residente a Parma,
era ormai più avvezza ai tortellini che al sushi; faceva addirittura fatica a
comprendere le abitudini del suo paese d’origine e, durante il lungo volo verso
levante, ci aveva messo più volte in guardia sulle stranezze che avremmo
affrontato.
Per introdurci alla capitale giapponese ci disse che era una città
luminosa, “mica come quelle italiane!”. Pensai che si riferisse a Montecchio,
tra Parma e Reggio e, più di tanto, non ci feci caso.
A bordo del Boeing 747 durante il volo venne proiettato sullo schermo (non
c’erano ancora i monitor sui sedili o sotto le cappelliere) Tonari no Totoro (il mio
vicino Totoro), il
bellissimo film di animazione dell’allora giovane regista giapponese Hayao
Miyazaki.
Le
creature fantastiche del mondo di Totoro, spirito buono che vive nelle campagne
fuori Tokyo, mi avevano portato ad immaginare, per una decina di ore, un mondo
misterioso ma sempre dominato benevolmente dalla natura. Un mondo che, con la
mia capacità di sintesi avrei compreso facilmente.
Volando
in avvicinamento a Tokyo rimasi
folgorato dalle molte tegole blu dei tetti nei dintorni della città e dal verde
ordinato della campagna; continuavo a sognare con Totoro…
La
realtà si rivelò quanto di più lontano da questa visione: me ne accorsi dopo
mezzora dall’arrivo, già attraversando gli immensi spazi del New Tokyo
International Airport, ora meglio conosciuto come Narita Airport.
I
miei sogni orientali si dileguarono in un attimo, come accade alla nebbia con i
primi raggi primaverili. In quegli stessi giorni il muro di Berlino si
sgretolava sotto i colpi della nuova voglia di libertà e con quelle picconate si
dileguavano anche le convinzioni e le paure di una generazione.
Già
all’aeroporto incontrammo il nostro cliente.
Lo
aspettammo in una piccola saletta prenotata. Andrea, la signora Suzuki ed io eravamo
seduti e composti sullo stesso lungo divano. Al di là del tavolino basso, su
cui spiccavano due grandi portacenere cromati, avrebbe preso posto il signor
Kim (Kim san) ed il resto della delegazione.
Quando
si presentò, ci prostrammo tutti in rigidissimi inchini, così come ci aveva
istruito la signora Suzuki, che ci aveva
riferito anche che sarebbe stato importante porgere i nostri biglietti da
visita per il verso giusto e con due mani, in modo che chi li riceveva potesse
leggerli (ovviamente senza capire nulla) ma… nel verso giusto. Allo stesso modo
noi avremmo dovuto accogliere i loro, con due mani ugualmente ansiose e avremmo
dovuto stupirci, meglio se vistosamente, di quanto ci fosse sopra dettagliato.
Questo
rituale impegnò più di tre minuti di convenevoli, scanditi dalla precisa
traduzione della signora Suzuki dei biglietti da visita di ognuno dei nostri
clienti e delle nostre referenze a loro. Quindi ci risedemmo composti. Kim ci
scrutò con calma e attenzione, certamente con un protocollo analogo a quello
con cui analizzava tutti i servizi igienici dei luoghi e degli studi
professionali che visitava, ovviamente per trarne le opportune conclusioni.
Spiegò
quale sarebbe stata la nostra prossima destinazione, chi ci avrebbe
accompagnato nonché l’ora ed il luogo in cui ci saremmo rivisti il giorno dopo.
A differenza di tutti gli altri “indigeni” che avevamo incontrato prima (e che
avremmo incontrato dopo) aveva dei modi di fare rozzi e scomposti e non
sembrava affatto adeguato al suo ruolo.
Prima
di accomiatarsi tirò fuori dalla tasca una mazzetta di yen che distribuì, per
consistenza e peso, secondo i ruoli: ad Andrea, alla Signora Suzuki e a me.
Non
rimasi minimamente offeso dal gesto, che da noi sarebbe apparso certamente
inopportuno, ed avevo già capito come spenderli non appena li ebbi contati e
convertiti mentalmente in lire. Lessi lo stesso sentimento negli occhi di
Andrea al primo incrocio di sguardi. L’unica imbarazzata era la nostra
traduttrice, la signora Suzuki.
Nessuno
dei nipponici si era avventurato a parlare inglese. Sarebbe stato inconcepibile
dimostrare troppe imperfezioni al cospetto degli italiani, molto più vicini di
loro alla cultura anglosassone. Il mio ruolo di traduttore sarebbe stato
assolutamente superfluo.
Io
lo sapevo benissimo, ben prima di partire, ma, codardamente avevo deciso che
non sarebbe stato indispensabile farlo notare. Alla fine anche Andrea era
comunque contento di non essere da solo.
Ci
portarono in un albergo di Shinjuku, uno dei 23 quartieri speciali di Tokyo e lasciammo
la nostra simpatica accompagnatrice alla sua serata e ad un meritato riposo. Nel
tragitto tra il Narita ed il nostro quartiere comprendemmo quanto fosse buia la
nostra Milano e quanto fossero veritiere le affermazioni della signora Suzuki.
Era
abbastanza tardi ma noi avevamo appetito e, alla fine, decidemmo di seguire i
consigli degli assistenti di volo Alitalia che ci avevano suggerito di andare a
mangiare una carbonara in un piccolo ristorante giapponese a pochi passi
dall’hotel. In qualsiasi altra situazione mi sarei rifiutato di mangiare cibo
italiano, anche se fossi stato a Montecarlo, ma quella sera, con il jet lag, si
poteva fare un’eccezione.
Ebbene,
debbo dire che non gustai mai più una carbonara così buona come quella, neanche
a Roma, nonostante gli occhi a mandorla dei cuochi, le pentole con colini a
spicchi (tipo friggitrice) ed i timer sotto ad ogni manico.
Usciti
da lì pensammo di seguire una folla densa che credevamo andasse spedita verso
un qualche evento: dopo cinque minuti al passo da bersagliere, ci trovammo
tutti all’ingresso della metropolitana: erano le 23,10 ed era normale che
“qualcuno” rientrasse a casa dal lavoro.
Tornammo
all’albergo, leggermente disorientati, e decidemmo di rimandare alla notte
seguente l’esplorazione della città.
L’alba,
nel paese del sol levante, arrivò velocemente e quasi inaspettata. Non solo
perché Tokyo è 8 ore avanti rispetto a Milano ma anche perché la mia camera,
rivolta ad est ed al 18° piano, prendeva la luce ancora prima. Inoltre, la
voglia di vedere cose nuove aveva battuto la stanchezza e la pigrizia del
secondo giorno di viaggio. Alle 6,38 ero già a gustare il mio favoloso continental
breakfast con una vista, tersa e mozzafiato, su una città ancora
sconosciuta, spazzata da una frizzante brezza novembrina.
Due
tavoli più in là, un uomo con un’età compresa tra i 39 ed i 59 anni,
sorseggiava un thè che pareva versato direttamente dal crogiolo di un diavolo tanto
fumava ed annebbiava le lenti degli occhiali. Quel vapore si appiccicava alle
lenti (la montatura ricordava quella della “moglie di Mao Zedong”) nonostante
il tepore dell’ambiente; si intuiva quella temperatura infernale anche e soprattutto
a giudicare dal “suono” dei suoi risucchi. Riflettei in quel momento che in Giappone c’era
una alta incidenza di tumori all’esofago anche a causa del gradimento di
bevande e zuppe consumate oltre i 70° centigradi.
Quella
caldissima umidità lo disturbava, anche se vi era certamente abituato, mentre si
affannava a cercare preziose notizie nella sua pila di incomprensibili
quotidiani - che includeva anche The
Wall Street Journal - che giacevano
disordinatamente di fianco della sua asa gohan (la colazione).
La
colazione giapponese, che normalmente si consuma ritualmente a casa o in un ryokan
(la locanda tradizionale), è composta generalmente da un tamagoyaki, una
alquanto complessa omelette a base di uova, salsa di soia e zucchero, cotta secondo
un protocollo abbastanza complesso a cui si associano, come in quel caso, riso
bianco cotto al vapore, pesce, alghe e verdure miste. Vedevo fumare anche quella
che mi sembrava una zuppa di misu che strizzava l’occhio ad una brioche
francese al burro, già abbondantemente azzannata secondo una sequenza imprevedibile.
Un piccolo pesce sfilettato, probabilmente marinato in un “qualche modo”,
aspettava anche lui pazientemente il suo turno di fianco alle verdure cotte a
vapore.
Mi
ero annotato, con pedissequa precisione, il banchetto del business man solitario
avvicinandomi alla finestra di fianco a lui, facendo finta di guardare il
paesaggio urbano a perdita d’occhio da quel lato della sala, fingendo di
evitare il riflesso del sole che sbucava, alla mia sinistra, dallo skyline dei
grattaceli del centro.
Aspettai
Andrea per oltre un’ora e mezza, che impiegai a leggere qualcosa sulla città
che ci attendeva.
Il
primo obiettivo della giornata sarebbe stato dilapidare immediatamente il
regalo impersonale del signor Kim. Sicché
alle 9,45 ci presentammo davanti al grande centro commerciale, una specie di super
Rinascente anni ’80, che ci aveva raccomandato la signora Suzuki e che ci
avrebbe risucchiato per quasi due ore. L’orario di apertura era le 10 in punto
e, appena dietro alla vetrata d’ingresso c’erano due manichini che sembrava
facessero la guardia. Io ed Andrea eravamo proprio i primi di una ordinata fila
che stava aumentando col passar dei minuti.
Alle
10 esatte i due manichini presero sembianze e movimenti umani.
Al
tempo i robot giapponesi non erano così evoluti da poter essere confusi con
degli essere umani, come potrebbe accadere invece oggi con il clone di Hiroshi
Ishiguro - lo scienziato giapponese che ha concepito e “partorito” Geminoid,
un robot umanoide che è l’esatta copia di se stesso - o con i vari Asimo
della Honda e Qrio della Sony che fino a poco tempo fa si sono sfidati
per essere i migliori assistenti agli umani. Quella volta a Tokyo correva
l’anno 1989 ed eravamo ancora nel medioevo della robotica.
Nonostante
tutto, quelle due hostess a noi sembravano “perfettamente disumane” nella loro
plastica (di plastica) rigidità.
Insomma,
alle 10,00 ed un secondo, si spalancarono, automaticamente, le grandi porte di
cristallo stratificato mentre, nell’esatto istante, partiva una musica solenne,
simile a quella di un inno nazionale.
I
due automi di sesso femminile si inchinarono sincronicamente, esattamente al
nostro passaggio, ed in quel momento ci sentimmo investiti da un inaspettato senso
di potenza.
Ma quell’esperienza
non finì lì. Dopo meno di dieci passi ci accorgemmo che, in realtà, c’erano - e
sicuramente da più di venti minuti - altre bellissime ragazze-robot di fronte ad
ognuno degli spazi di vendita dei diversi brand di cosmetica (al piano terra
dei centri commerciali c’è sempre la cosmetica e non ho mai capito perché).
Man
mano che avanzavamo lungo la corsia principale, al ritmo dell’inno maestoso del
mall e con la folla dietro di noi che ci seguiva, ad ogni passaggio di
due stand contrapposti, due umanoidi si inchinavano, solo per noi, e
perfettamente a tempo. Dopo il primo momento di stupore, allungammo lo sguardo
e notammo una sterminata guarnigione di ragazze di fronte ad ogni negozio. Tale
e tanta era la sorpresa di essere riveriti come dei capi di stato che
accelerammo il passo per superare quelli che, durante il primo momento di stupore,
ci avevano preceduto. Percorremmo con quegli onori almeno una trentina di metri
del grande corridoio, prima di arrivare agli enormi ascensori.
Entrammo
e non aspettammo nessuno. Salimmo al primo piano, poi al secondo e così via,
cercando sempre di essere i primi e di godere del privilegio di quel doppio inchino
perfettamente sincronizzato. Ovviamente la regola non era matematicamente
perfetta e, mentre correvamo per i corridoi del secondo piano, già qualcuno era
salito al terzo per anticiparci, ma ovviamente senza malizia alcuna e solo per
necessità.
Naturalmente,
appena il primo cliente passava davanti a loro, tre secondi dopo l’inchino, le
ragazze-robot iniziavano la loro umana attività di vendita e finiva
l’incantesimo.
Io
mi persi al quinto piano, nel reparto fotografico, e dopo quasi due ore ritrovai
Andrea in strada, entrambi felici come dei Buddha e gratificati come delle pop
star, cosa che raramente accade.
Non
avevamo ancora visto molto di Tokyo, ma già era un buon inizio.
(to be continued)
[1] Scuola di Surf a Vela a Fumetti – Giorgio Martino - Mursia Editore – 1983 – il primo corso completo
di surf a vela a fumetti –
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13.07.2020 verso la
Russia incontrando Berlino
Nell’inverno del 1993 riuscii
a chiamare San Pietroburgo, in Russia, dalla cabina telefonica di Piazzale
Medaglie d’oro a Milano. Non andai a quella cabina con la premeditata
intenzione di chiamare Natasha, un’amica e collega di San Pietroburgo; la
cabina mi si presentò davanti, con la porta di vetro ed alluminio socchiusa ma
non ferma e solo perché la cerniera superiore aveva un po’ ceduto. Non era di
quelle con la porta “a libro” ma una di quelle con le porte tipo saloon, i
profili di alluminio ed il vetro inferiore rosso come la cornice superiore. Non
era un bell’oggetto come quello britannico ma tutti noi italiani ci
accontentavamo e, in qualche modo, ci eravamo affezionati.
L’apparecchiatura
telefonica vera e propria era quella rosso/arancione, cosiddetta Rotor, predisposta
sia per l’utilizzo di monete che per l’uso con le schede telefoniche.
C’era un vento inconsueto,
cosa abbastanza rara per Milano. La porta si discostava e socchiudeva come per
dirmi: “entra, prova a fare una telefonata…”
Qualche minuto prima,
nella stazione della metropolitana di Porta Romana, avevo comprato una ricca scheda
telefonica da 10.000 lire.
Una volta ogni sei mesi,
dal 1990 ad allora, provavo a chiamare questa amica conosciuta in un campo di
scavi vicino a Kerc, in Crimea, dove si scavava per cercare alcune vestigia
della Repubblica di Genova che lì aveva una delle sue roccaforti. In quel tempo
esisteva ancora l’Unione Sovietica. L’unica modalità di contatto audio era
attraverso il “10”, centralino telefonico internazionale: bisognava comunicare il
numero, la città e lo stato (e, se volevi, la persona) ed attendere un tempo
assolutamente indeterminato per essere messo in contatto.
In quegli anni il mio
russo ed anche la mia pazienza non erano delle migliori; talvolta scambiai
qualche suono con la madre senza produrre particolari risultati e solo due
volte, in tre anni, riuscii a parlare con Natasha. Quel giorno, invece, con la
scheda telefonica piena nel portafogli (… e non nel portafogli pieno) e con la
cabina che mi chiamava, poteva essere la volta buona.
Non feci fatica né a
trovare la scheda che avevo appena comprato e né a trovare il numero di
telefono della mia amica che era in un fogliettino consumato che riportava
anche altri appunti inutili, appiccicato tra la patente di carta rosa e la
carta di identità.
Mi faceva strano comporre
quel numero che, fino ad allora, avevo sempre e solo dettato ad una sconosciuta
dall’altra parte di una pesante cornetta telefonica. Quella volta non dovetti
aspettare ore: dopo 4 squilli rispose Natasha. Lei parlava un piacevolissimo
italiano con il tipico accento russo. Non sembrava vero ad entrambi e neanche a
me che avevo preso quell’iniziativa. Consumai tutte le 10.000 lire abbastanza
velocemente per dirle, alla fine, che se le avesse fatto piacere, sarei andato
a trovarla durante l’estate dell’anno successivo. Disse di sì.
Disse di sì e subito mi
accorsi che cominciai a contare i giorni alla partenza: mancavano sette mesi e,
come al solito, confezionai un buon motivo per preparare il nuovo viaggio col
giusto “preavviso”.
Coinvolsi subito Gigi,
amico di mare e di terra, e convinsi una casa automobilistica a darmi un fuoristrada
nuovo da provare sulle piste della Russia e della Scandinavia: sì, perché volli
arrivare a San Pietroburgo scendendo da Nord. La voglia di arrivarci dall’alto mi
era venuta negli anni precedenti quando arrivavo alla stazione di Helsinki, in
pieno inverno, e vedevo i treni ghiacciati sul binario 1 che erano diretti in Russia
verso quella, che fino al 1990, era chiamata ancora Leningrad.
Partimmo una sera d’estate,
con la macchina piena di scatolette, salami, parmigiano e qualche bottiglia di
vino. C’era anche qualche zanzara che faticava ad uscire dai finestrini. Il mio
air-camping era montato sulla bagagliera della Nissan Terrano II nuova di zecca
che mi avevano generosamente ed incautamente prestato.
Passammo la prima notte in
un ostello a Praga. Purtroppo non avevamo tempo da dedicare a quella parte del
percorso e, dopo poche ore di relax, proseguimmo subito verso nord.
Sul confine con la
Germania, sulla direttrice per Dresda, incontrammo la più grande concentrazione
di prostitute che abbia mai visto: credo siano state ben oltre 500 in meno di 500
metri di strada. Molto meno di un quinto di camionisti di diverse etnie indugiava
l’uscita dalla neonata Repubblica Ceca distratto dal particolare paesaggio
umano…
A Meissen, città della
porcellana, ci concedemmo abbondante birra ed un po’ di riposo prima di
ripartire per Berlino.
Gigi aveva poco tempo ed
in poco meno di 20 giorni avremmo dovuto attraversare il Centro Europa, la Scandinavia,
incontrare la mia amica a San Pietroburgo, annusare l’Estonia, la Lettonia e la
Lituania per poi correre giù, verso Milano, percorrendo oltre 1.700 km in poco
meno di 22 ore, partendo da Bialystock in Polonia (al confine con la
Bielorussia).
Ma torniamo in macchina
ed alla risalita della Germania. La prima vera sosta doveva essere Berlino, la
città divisa e rinata dalle sue ceneri come la Fenice e che da poco aveva
incominciato a “squarciarsi” per accogliere nuove opportunità.
Purtroppo, dopo allora e
nonostante tutto l’amore che vorrei esprimere per questi luoghi, conosco ancora
poco Berlino anche se uno dei miei più cari amici è un artista “Berliner”/
milanese.
In quella fresca
estate mitteleuropea si poteva solo ipotizzate quello che sarebbe diventata. Io
ho assaggiato una Berlino diversa che aveva ancora l’atmosfera di uno dei più
straordinari film di Wim Wenders, “il cielo sopra Berlino”. In questa pellicola
il grande regista di Düsseldorf, ha voluto immortalare, forse appena in tempo,
quest’unica e particolare saudade germanica attraverso un viaggio spirituale
nei pensieri delle anime comuni. Anche la nostra era una Berlino “comune”, non
ancora quella dei grandi gesti architettonici: era una Berlino ancora un po’ in
bianco e nero che ci ha accolto, anche qui all’improvviso, in un luna park
destrutturato e quasi improvvisato ma dotato di un inaspettato “bungee jumping”
attaccato ad una gru da costruzione dei nuovi cantieri, non lontano dalla
Potsdamer Platz.
Fummo ospitati da due
ragazze conosciute sotto il bungee jumping a cui offrimmo la cena e pulimmo la
casa senza pretendere nulla in cambio: andava bene così. Eravamo contenti di
questa nuova libertà che si respirava ovunque. Poco più tardi dell’alba del
giorno dopo il viaggio proseguì ancora verso Nord.
Capii subito, ma troppo
tardi, quanto sia importante avere la percezione del cambiamento epocale
proprio nel momento in cui avviene per avere la prontezza di presentarsi, assistervi
e testimoniarlo: ecco, io questa prontezza, sia nel 1994 che qualche anno
prima, purtroppo non l’ho avuta e mi sono perso il passaggio da quel particolare
bianco e nero al particolare colore della nuova capitale d’Europa.
Il mio amico berlinese,
grande artista erotico-fumettista, mi ha sempre raccontato storie di una
incredibile città divisa che accoglieva generosamente ad Ovest tutti i giovani
che avessero voluto nutrirla mentre, ad Est, si respirava un’aria ben diversa, pesante
e romantica allo stesso tempo, ma non per questo meno stimolante. A lui piaceva
fuggire ogni tanto di la’...
Natasha ci aspettava a
San Pietroburgo ma, per quanto corressimo troppo e quasi senza senso, l’arrivo
sarebbe stato ancora molto lontano. Ancora una volta, il traguardo, non era la
meta segnata su una carta.
(…)
07.06.2020
L'INIZIAZIONE
Riflessione a SESSANTA gradi - prima di raccontare altre storie
Mio papà, Console del Touring Club Italiano, mi inizio’ al viaggio negli anni ‘60, forse prima ancora che cominciassi a parlare.
Sono stato certamente un bambino molto fortunato, nato da genitori della nuova borghesia professionale post bellica.
La mia famiglia mi insegnò, credo bene, a relazionarmi con gli altri e a non aver inutili paure del diverso: anzi, mi stimolarono da subito alla curiosità ed alla ricerca delle novità per scoprire, nelle differenze, sempre delle nuove opportunità.
Il viaggio
Si partiva in macchina, da Recco, normalmente su una Lancia (quando non era ancora diventata una costola della Fiat), dopo una minuziosa preparazione che iniziava, sempre con abbondante anticipo, su guide del TCI e cartine Michelin.
Osservavo, sempre un po’ da lontano, il papà che architettava le prossime vacanze. Avevo rispetto per quel suo impegno ed ancor più curiosità per il risultato: volevo apprenderne le regole ed i protocolli. Non sembrava un lavoro da poco e ne’, tantomeno, improvvisato. Capii da subito che bisognava metterci della progettualità.
Nell’angolo di papà, non nel reparto medicina che era vastissimo, ma in un’altra stanza, c’erano tantissimi libri di geografia, molte cartine divise per precise aree geografiche, manuali di piante, funghi e giardinaggio, libri d’arte e di storia, gli "inserti" più interessanti dei quotidiani; c’erano anche tanti appunti poco comprensibili (...calligrafia da medico) e, poco più in là, in un armadio appositamente dedicato, i filmini dei viaggi in 8 e poi super8 mm che guadagnavano sempre più spazio a discapito delle foto di famiglia in bianco e nero.
Ero sempre affascinato nel rivederli dopo il rituale tempo di attesa dello sviluppo. Quando fui abbastanza grande, imparai a dare una mano al babbo nel montaggio con una delle due taglierine della 3M che, insieme ad una piccola moviola, facevano parte dei “tools” di post produzione. Ogni tanto bisognava metter mano ai montaggi già fatti quando accadeva il maleaugurato inceppamento della pellicola che si scioglieva drammaticamente, col calore della lampadina, davanti ai nostri occhi e, quasi sempre puntualmente, durante la visione con i parenti. Avevamo sia un proiettore 8mm che uno super8 con pista audio (ma questo solo alla fine degli anni 80), il classico telo di proiezione a rullo su treppiede e due macchine da ripresa che osservavo sempre con grande meraviglia e sognavo di usare il prima possibile. La più bella era sempre la prima: la Bolex Paillard B8L 8mm biottica e “muta” che ancora conservo gelosamente nel mio grande armadio foto-cinematografico -1-.
Il viaggio di esplorazione e la documentazione dei luoghi e delle impressioni vissute nutrirono sicuramente i miei primi tredici/quattordici anni di vita...
L’emozione dei primi chilometri in allontanamento da casa era (ed è tuttora) qualcosa che attendevo con trepidazione nelle ore che precedevano la discesa delle scale con le valigie in mano. Mia mamma, secondo papà, era sempre in ritardo nel chiudere la casa e lui si innervosiva sempre molto; credo, però, che anche quello fosse più un rituale scaramantico che una vera arrabbiatura. Immagino che anche lui, come me ora, non vedesse l’ora di girare la chiave di accensione del motore.
Con noi, per anni, ha sempre viaggiato uno dei miei cugini: o Maurizio, più grande di me di sette anni o Gabriella, praticamente mia sorella, che ha la mia stessa età.
A parte i primi giri “fuori porta” nella Francia mediterranea e nella silenziosa Svizzera (non cito l’Italia che imparai presto ad attraversare in lungo ed in largo), il mio primo vero viaggio itinerante fu la Spagna ed il Portogallo nel 1969, ancora ai tempi del Generalissimo Franco e del dittatore portoghese Marcelo Caetano.
L’altopiano infinito della Meseta, dalla Cordillera Cantabrica alla Sierra Morena, passando per la Sierra Guadarrama e La Mancha, alitava un calore quasi africano all’interno della Flavia, stemperato soltanto dall’antica corrente dei deflettori sulle porte anteriori. I “deflettori”!!! Erano essenziali triangolini di vetro con luccicanti cornici cromate dotati di un piccolo blocco ruotante con pulsantino. Negli anni sessanta le automobili erano il trionfo della meccanica e del metallo, alla ricerca di una funzionalità che tentava, talvolta maldestramente, di ostentare affidabilità: erano il simbolo della nuova ricchezza e della riconquistata libertà, anche di movimento.
A quei tempi si raccontava che “facesse male” ruotare il deflettore oltre un certo angolo perché si sarebbe rischiato un brutto colpo d’aria -2-.
In quel viaggio iberico, le enormi sagome dei tori neri dell’azienda vitivinicola Osborne -3- soprattutto in Andalusia (ma non solo), rendevano il mio primo viaggio ancora più eccitante!
Cercavo di indovinare dietro quale dolce collina avrei visto spuntare le corna.
Mentre ero a caccia di tori (mi piaceva stare dietro a papà, lato guida) ero sempre il primo a notare le nazionalità delle macchine degli altri viaggiatori. I fari gialli significava che stavano sopraggiungendo dei francesi. Invece, quando incrociavamo una macchina italiana lo si capiva dalla targa nera ed era sempre una piccola emozione; al babbo chiedevo (anzi, pretendevo) che suonasse il clacson quando ci accorgevamo che il veicolo fosse targato “GE”, Genova! Sarà accaduto non più di due volte in tutto il viggio.
Ricordo poi alcune notti passate nei paradores, castelli trasformati in hotel esclusivi: stanze con muri e mura di pietra ed armature medioevali esposte nei corridoi. Nel giardino i percorsi erano illuminati da fiaccole e lanterne e la luce fioca di candele integrava quelle delle lampadine ad incandescenza nelle stanze da letto.
L’emozione era al massimo ma, per la prima volta, riconobbi anche la sensazione del privilegio e, forse, per la prima volta incominciai a sentirmi anche troppo fortunato. Proprio in un parador vidi la mia prima tv a colori, quando il motion blur si appiccicava soprattutto ai “rossi” nelle scene veloci che lasciavano ancora la scia.
Metà del viaggio, a partire da Toledo e prima del Portogallo, lo feci seduto sulla ruota di scorta (che non era un ruotino) perché nel bagagliaio c’era la vecchia cassapanca che aveva voluto comprare la mia mamma. A quel tempo la sicurezza stradale era ancora una teoria da approfondire e le cinture di sicurezza, quando c’erano, erano degli accessori antiestetici.
Con lo stesso spirito e la stessa tecnica, l’anno successivo, affrontammo prima la Yugoslavia e poi la “cortina di ferro” per visitare la tormentata Ungheria.
Sensazioni diverse per un mondo diverso. La distanza era tutta politica e poco geografica.
Avevo solo 10 anni ma lì imparai a riconoscere negli sguardi degli sconosciuti l’angoscia, la mancanza di libertà ed il timore per il controllo.
Assaggiai il primo goulash e, sul lago Balaton, scoprii che mio padre galleggiava e non nuotava.
Poi, nel 1971 e 1972, la Sicilia e la Sardegna furono come andare ancora all’estero: con noi c’era però Gabriella, e la vicinanza di età (critica) e la complicità mi distrassero dalla voglia di scoperta e dall’introspezione del viaggiatore.
Finalmente, nel 1973 arrivò l’Africa. Sbarcammo con la nostra nuova Lancia a Tunisi: le prime vere palme piegate dal maestrale, i dromedari nei pressi del porto ed il primo vero caldo secco del deserto mi stordirono all’istante.
Da quell’infezione non guarii più e, da allora, capii che avrei dovuto andare sempre un po’ più in là.
In Tunisia sperimentammo la nostra prima insabbiatura e intuii che se avessimo avuto quattro ruote motrici, avremmo potuto osare di più. Poi però, con gli anni, avrei imparato che più semplice e povero era il mezzo, più bella sarebbe stata l’avventura.
Dopo quel viaggio, arrivo’ un’altra estate e, quasi all’improvviso, ci fu il distacco dai genitori.
Iniziò il tempo dello sport, che fece anche lui la sua parte. Mi insegnò altre emozioni ed un altro tipo di rispetto: quello per il mare e per la natura. Mi insegnò la sfida e la tecnica, il protocollo e la strategia.
Tante miglia e tante sfide; acqua dolce e salata. Bonacce e buriane. Ancora facce ed ancora bandiere diverse.
Dopo i vent’anni, però, ritornò la necessità del viaggio, anche senza una barca sul tetto della macchina. Quando vai in giro “dietro” allo sport o ad una altra passione non c’è spazio per molto altro.
Era tornato il tempo di ritrovare le emozioni che avevo già iniziato a sperimentare con i genitori negli anni dell’infanzia e della prima adolescenza ed era quindi giunto il momento di separare le due esperienze su binari paralleli.
Mi attrezzai prima di macchine fotografiche ed obbiettivi. Dopo, come il babbo, aggiunsi anche le immagini in movimento.
E così è stato per i successivi quaranta anni.
Ieri, 6 giugno 2020, ne ho compiuto sessanta.
Me ne sono accorto il lunedì che sarebbero arrivati nel fine settimana.
Guidando, da solo, sulla Milano-Genova, Radio24 mi ha ricordato che l’OMS mi comprende ora in nuova categoria: quella degli “anziani”.
In effetti qualche handicap motorio cerca di mettermi di fronte alla conta dei chilometri ma credo non sia sufficiente a convincermi a desistere.
Ho bisogno ancora di continuare a girare la chiave di accensione del motore e caricare i bagagli a bordo.
Ho deciso quindi di dedicarmi un po’ di più alla lubrificazione degli ingranaggi biologici per dare nuova energia ai prossimi progetti e per portare a termine nuovi itinerari ed avere, così, altre storie da raccontare.
Il mio babbo mi ha lasciato il volante tanti anni fa, e forse me ne sono reso conto quando era troppo tardi per condividere con lui ancora un po' di strada. Il volante che presi in mano allora, però, non ho ancora deciso di passarlo.
„Non smetteremo di esplorare. E alla fine di tutto il nostro andare ritorneremo al punto di partenza per conoscerlo per la prima volta.“ — Thomas Stearns Eliot, libro Quattro quartetti”
note:
- Non ho mai sostituito una macchina fotografica o una telecamera (negli anni 90 si passa dalla cinepresa alla telecamera): ne ho sempre aggiunto di nuove. Credo che, nel mio caso, la definizione clinica più corretta sia feticismo ottico-meccanico.
- Ricordo che mio zio Alberto, il papà di Maurizio, appendeva al blocco del deflettore una piccola radiolina a transistor, con una custodia marrone in finta pelle, che musicava altre nostre gite nell’entroterra ligure e nelle Cinqueterre
- I tori di Osborne furono ideati dall’artista Manolo Prieto a metà degli anni ‘50
25.04.2020
La Georgia vista da Giorgio
Questa volta vi racconterò storie di Georgia, non lo stato federale USA con capitale Atlanta, ma quella caucasica, che pur essendo geograficamente asiatica, possiamo però considerare come parte dell’Europa Orientale, sia da un punto di vista storico che, quindi, culturale.
La Georgia, per me, è come Novara. Non ti accorgi che esiste fintanto che non ci vai apposta. Ma, senza offesa per i “nuarès”, la Georgia mi stuzzica di più.
La mia prima Georgia era sovietica. Non mi accorsi subito di lei; si nascondeva ancora dietro agli ultimi slogan per attuare la Glasnost (trasparenza) e la Perestroika (ricostruzione politica) di Gorbaciov; ma la sua vera anima, quasi mediterranea, si poteva cogliere appena dopo pochi sguardi e qualche bicchiere di vino, che pare sia uno dei più antichi se non il più antico al mondo. Il vino della Colchide, che è più o meno quella parte di attuale Georgia che si affaccia sul Mar Nero, fu decantato anche da Apollonio Rodio che racconta che gli Argonauti trovarono addirittura una fontana di vino nel palazzo di Aieti.
Ai Georgiani piace molto il vino e devo dire che questo tipo liquido, per me, è stato un medium fondamentale per entrare in empatia con questi lontani cugini.
23.04.2020
La Georgia è dietro l’angolo…
La Georgia è dietro l’angolo, ma non sappiamo ancora di
quale casa.
La Georgia galleggia tra l’Europa e l’Asia su un confine
continentale che, sostanzialmente, non esiste e, forse, non è mai esistito.
Io sono tra quelli che credono, geograficamente parlando,
che esista soltanto l’EurAsia 1.
Inoltre, in questa regione, che un tempo era spartita tra
la mitica Colchide del Vello d’Oro e l’Iberia (con cui nulla hanno a che
fare le linee aeree spagnole) si ritrova un crogiuolo di popolazioni che riassume benissimo
questo incontro di storie e culture.
Sono stato in Georgia due volte: la prima nel 1990 quando
era ancora un brandello dell’Unione Sovietica e la seconda nel 1998, quando era
di nuovo (o ancora) a brandelli.
Se vado a frugare nella mia memoria, le immagini delle
mie Georgie si sovrappongono caparbiamente: qualcosa vorrà pur dire.
Nel ‘98, rispetto alla prima esplorazione, nulla o quasi
era cambiato, a parte la bandiera e la coscienza di una faticosissima libertà.
Le facce, i colori e gli odori erano gli stessi e li
riconobbi subito, alla prima sosta.
Entrambe le volte ero entrato dal confine con la Turchia,
dal valico di Sarpi, vicino a Batumi, sul Mar Nero.
La prima volta ve l’ho già raccontata; la seconda, nel
’98, con un nuovo compagno di viaggio, Paolo, a bordo di due mezzi umilissimi
(due tricicli Ape Piaggio), alla fine di un lunghissimo secolo ed all’alba di
una nuova era.
Tutti quelli che avevamo incontrato nei chilometri
precedenti a quel confine, ci ammonirono che sarebbe stato un itinerario da
evitare per una serie non indifferente di buoni motivi.
Ma i buoni motivi, forse proprio perché si chiamano così,
furono la ragione per cui ci lasciammo volentieri alle spalle la Turchia, percorrendo
quella che ora si chiama E70.
Avevamo guidato meno di 5 chilometri di pista devastata dagli
enormi camion da cava BelAZ-75501 utilizzati per la ricostruzione in
corso della strada del confine: la mia colonna sonora “del passaggio” erano i
Led Zeppelin, album II, che bene accompagnavano le good vibrations della
pista ed il sound dei mastodontici mezzi russi. Appena in vista della
lunga spiaggia di Gonio (noto per la sua fortezza romana) fummo accolti, lato
Mar Nero, da un grande, rosso e già vecchio cartello “Welcome in Georgia”,
sponsorizzato dalla Coca Cola; 4 tipiche piccole e scure mucche georgiane pascolavano
in mezzo alla strada. Dopo le foto di
rito, dopo il primo di quattro posti di blocco di “azzurri” poliziotti a cui
avremmo ben presto fatto l’abitudine, dopo poco più di 30 minuti di guida e dopo
aver passato il fiume Chorokhi, arrivammo nel centro della città di Batumi,
capitale della repubblica autonoma dell’Agiaria.
Alla vista delle prime facce, avevamo capito di essere
entrati dentro ad un nuovo film. Paolo ed io ci guardavamo dai finestrini
aperti delle nostre Ape mentre ci sorpassavamo a vicenda a meno di 50 km all’ora.
Sorridevamo beati e la mia autoradio a cassette urlava “rocket man” di Elton
John. Decidemmo, su mappe cartacee, di
cui avevamo fatto ampia scorta sia prima di partire che lungo la strada, di
imboccare la via Gogebashvili, guardata a vista dalla piccola ChaCha Tower, in
cerca di un po’ di vita ed un po’ di cibo. Di “vita” ne trovammo poca ma incominciammo
a seguire un intenso profumo selvatico di griglia.
Fermammo i nostri due mezzi vicino alla banchina delle
barche dei pescatori e di quelli che sembravano essere stati degli yachts di
qualche piccolo gerarca sovietico in vacanza; vecchi fasti galleggianti di un
periodo non fastoso: dondolavano dimenticati, cotti dal sole, anche di quella nuova
estate e, ovunque ci fosse acciaio, lacrimavano ruggine; una nuova bandiera sventolava
al posto di quella con la falce e martello. Proprio lì trovammo il nostro
street food arrembato su un carretto a pedali di fianco ad un chiosco
che vendeva bibite ghiacciate. Al giovane Mikheil non sembrava vero di servire
due veri europei che avrebbero pagato in dollari! Credo che quel giorno abbia
preparato i migliori shashlik (spiedini) con puri (pane) scottato
e p’omidori degli ultimi sei mesi; noi non esitammo a chiedere bis e
tris. Questa abbuffata, nonostante la nostra discrezione di protocollo, non era
passata inosservata.
A non più di 10 passi c’erano due ragazzi che si stavano
asciugando dopo l’ultimo tuffo dal molo. Si chiamavano Josip e Misha, come
l’attuale presidente (Saak'ashvili), avevano iniziato a guardarci già dal primo
morso e poi avevano continuato mentre si rivestivano, quando noi finivamo il
nostro secondo spiedino.
Misha indossava una coppola da strillone newyorkese, un
asciugamano, due larghe bretelle alla moda ed un paio di pantaloni, quasi
bianchi, di tela ed un paio di scarpe con stringhe troppo corte. La camicia era
in mano.
Volevamo esplorare il posto e “quello col cappello” aveva
la faccia giusta di colui che ci avrebbe potuto insegnare qualcosa. Josip, l’altro,
più alto ed ancora più magro, comunque, ci lasciò quasi subito: aveva fretta di
fare cose improcrastinabili.
L’incontro con Misha fu un ottimo affare per tutti: lui
mangiò il primo vero pranzo da due giorni e noi trovammo un amico.
Era curioso, cordiale e molto educato: fu esclusa da subito
la lingua inglese e cercammo, quindi, di comunicare con quel poco di russo che
balbettavamo. Ma lui, ogni dieci parole, infilava un “buonCiorno Italia!” e fumava
e brindava con un gran sorso di birra Argo!
Il pranzo in riva al mare finì senza fretta e,
naturalmente, decidemmo di accompagnarlo a casa e di incontrare suo padre ed i
suoi amici.
Riattraversammo la città verso sud-est per arrivare nel
quartiere popolare di stampo sovietico dove viveva con la famiglia dalla
nascita; lasciammo i veicoli in una specie di deposito semidiroccato dove c’era
a guardia, per pochi lari, un brutto ceffo, accuratamente tatuato e con
una vecchia Pistolet Makarova 9x18 infilata, ben visibile, nella cintura
dei pantaloni. Gli eravamo simpatici perché, come italiani, ci associava alla Piovra
(serie televisiva che impazzava nell’ex mondo sovietico post Gorbaciov) e,
quindi, ci identificava nella “stimatissima” mafia italiana.
Misha abitava in quello che per noi poteva essere un quartiere
popolare devastato, qualche anno prima, da una esplosione atomica.
Negli spazi comuni, “verdi” - non secondo un preciso progetto
ma per invasione naturale - pascolavano galline e maiali.
Prima di salire nell’appartamento, volle mostrarci la
cineteca del quartiere: un container arrugginito da 20 piedi con su scritto, a
pennello ed in caratteri latini, KINO (cinema): aveva una porta fatta con una
pesante lastra di acciaio dotata di tre lucchetti cinesi; due “finestre”
tagliate col flessibile, protette da una specie di grata fatta con ferri da
cantiere, barbaramente saldati alla lamiera rovente, facevano entrare (od
uscire?) aria bollente e zanzare. All’interno una vasta collezione di VHS, sia
in russo che in inglese, provenienti da chissà dove: il pezzo forte era una copia
pirata di Titanic in francese, uscito nelle sale occidentali appena un anno
prima.
Forse perché raccoglieva tutta la luce dell’ovest, all’interno,
la temperatura, era insopportabile: mi domandavo come non si fossero ancora sciolti
tutti i nastri che custodiva.
Finalmente usciti da lì, imboccammo il viottolo di casa e
l’anonimo ingresso del condominio. Salimmo a piedi con gli zaini ed i sacchi a
pelo i cinque piani che ci separavano dalla porta del suo appartamento. C’era l’ascensore
ma nessuno da tempo voleva sfidare la sorte perché l’alea sarebbe stata
eccessiva.
L’appartamento era decoroso, arredato con mobili del
periodo di Leonid Breznev: un soggiorno, due stanze da letto a destra, una per
lui ed il fratello che non c’era più ed una per i genitori; il cucinino era di
fianco al soggiorno ed un piccolo bagno in fondo al corridoio d’ingresso con
piastrelle rosa 20x20 a contorno di una vasca in ghisa, corta e sbeccata,
destinata alla riserva d’acqua (razionata) della famiglia. Lo specchio era
rotto ma non portava ulteriore sfortuna.
Dopo la terza birra, aspettando l’amico Amiran ed il
padre tassista, cominciava ad imbrunire: era l’ora di accendere la luce. Il
lampadario non era collegato alla rete elettrica, anch’essa comunque contingentata;
c’era una sola preziosissima lampadina (protetta da una gabbia di rete
metallica) fissata ad un lunghissimo cavo: il cavo era collegato, cinque piani
più in basso e dieci metri oltre, al più vicino lampione del quartiere.
Con Amiran arrivarono un’altra mezza dozzina di giovani
georgiani, tutti maschi, ognuno con cetrioli e p’omidori coltivati sui
balconi, patate e shashlik da cuocere, sei birre, due tipiche bottiglie
di Shampanskoye - custodite sempre con cura per le grandi occasioni - e
forse tre litri di vodka, inesorabilmente a temperatura ambiente.
La serata finì affogata nell’alcool che servì a comprendere
meglio non tanto le parole quanto i pensieri di gente tanto distrattamente dimenticata
ma così vicino alla nostra cultura e storia.
Il nuovo capitolo del nostro film ad episodi era appena
cominciato ma la trama era già estremamente “densa”.
Ci svegliammo al mattino, col canto di un gallo ed il
grugnito di un maiale: alla giusta ora per me ma troppo presto per Paolo che non
sapeva concludere la serata.
Mi dedicai subito alla mia inseparabile moka, sul nostro fornello
da campeggio, mentre il
sole filtrava tra le finestre senza tende e senza scuri e
la nebbiolina del porto di Batumi sembrava cercarci fin dentro al soggiorno
dove avevamo steso i nostri sacchi a pelo.
Dopo un altro giorno ed una notte a Batumi, decidemmo di
accompagnare Misha fino a Tbilisi per incontrare gli zii ed i cugini che non
vedeva da oltre un anno.
E fu così che, nei successivi 90 km verso Lanch’khut’i,
direzione Nord Nord-Est e prima tappa verso la capitale, finimmo col fare anche
un inaspettato viaggio nel tempo.
Passammo per le campagne dove stavano i nonni paterni;
mangiando uova fresche di pollaio e sorseggiando chai, fummo catapultati
nella battaglia di Stalingrado senza rischiare la pelle. Portammo fiori sulla
tomba del fratello diciannovenne di Misha, ucciso qualche anno prima dalla
polizia per questioni di droga, rischiando una rissa famigliare dalle
conseguenze imprevedibili…
In quattro giorni di strada, birre, vinho, vodka e
“buonCiorno Italia”, Misha era diventato un parente.
Ma queste sono altre storie, sempre dello stesso film.
1 “EurAsia Expedition ‘98”, così si chiamava il mio viaggio, da Lisbona a
Pechino, che feci nel secolo scorso con l’amico geografo Paolo Brovelli
1998 - Luglio - Georgia - Incontrare, per caso, John Le Carrè (David John Moore Cornwell) tra le montagne del Caucaso - Misha è il primo a sinistra, con la sua inseparabile coppola "a rovescio"
1998 - Ottobre - Kunjerab Pass - 4.693 mslm - Cina/Pakistan - il più alto punto di confine asfaltato al mondo
1998 - 28 novembre - Piazza Tien an Mem - Pechino - finisce EurAsia Expedition '98
24.03.2020
TRIBU' DEL KENYA: IL DISAGIO DELLA CIVILTA' - 111 giorni tra Kenya, Tanzania e l’isola di Zanzibar - 1986
Era il 1984, quando, alla 60ma edizione del Salone dell’Automobile di Torino, venni a conoscenza di un concorso indetto dalla Renault per premiare i 7 migliori progetti di viaggio. Il concorso si chiamava “Renault 4 sulle strade del mondo: avventura, cultura e ricerca”.
Avevo da qualche anno iniziato a viaggiare per l’Europa e non solo per fare regate (sul Laser) ma il nostro vecchio continente cominciava già a starmi stretto. Studiai un itinerario in Algeria, tra le sabbie del Sahara e le rocce dell’Hoggar, lungo la bidon 5, verso Tamanrasset passando per Reggane e Bordj Moktar. Volevo vedere l’ermitage del “padre del deserto”, Charles de Focauld, morto 69 anni prima, nel 1916, tra le desertiche montagne dell’Assekrem.
Questo monaco senza monastero, conosciuto come fratello universale, ospitava chiunque e di qualsiasi religione si presentasse alla sua porta; un po’ in ritardo, nel 1985, avrei voluto presentarmi anch’io.
Inviai questo progetto per partecipare a quella edizione e, alla fine, mi arrivò da Renault Italia una lettera che mi comunicava che ero arrivato in finale ma che, all'ultimo, ero stato escluso dalla rosa dei 7.
Non mi scoraggiai e all’edizione successiva cercai di essere più scientifico motivando un viaggio in East Africa con i temi della mia prossima tesi di laurea. Il giorno del mio compleanno, il 6 giugno, mi arrivò un telegramma che mi annunciava che finalmente avevo vinto e che Renault sarebbe diventata il main sponsor del mio primo vero viaggio e da allora, confesso, ci ho preso gusto!
Poco alla volta vi racconterò brevissime storie, didascalie approfondite sotto a queste vecchie foto.
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1986 - Chalbi Desert, tra Maikona e North Horr - Kenya
Il Mare di Giada
25.03.2020
La mia Africa, a metà degli anni ottanta, per il
terzo anno consecutivo, inizia sulla costa a sud di Mombasa, a Maweni, che
nella lingua bantu locale significa “il luogo tra le rocce”. La mia Renault
4GTL, che in East Africa era conosciuta come Rhino per la sua incredibile
robustezza, era arrivata a Mombasa, via nave, da Trieste. In pochi giorni
preparammo i bagagli per partire subito verso nord. Ci sarebbero molti aneddoti
da raccontare ma il primo che mi viene in mente mi catapulta decisamente
lontano dalla barriera corallina, lungo le rive del Lago Turkana, già definito
sia “la culla dell’umanità” che “il mare di giada”.
In pochi giorni di viaggio ci eravamo già
lasciati alle spalle oltre 1.500 km, diversi parchi e savane (Tsavo East, Mount
Kenya, Mamunyak, Leparua, Marsabit) e l’icredibile Chalbi Desert.
Oltrepassate le aride alture di North Horr arrivammo
in vista di quel lago che tanto avevo sognato nelle mie prime notti
milanesi e che nasce in Etiopia, dalle acque dell’Omo River, dove
continua quell’ombelico del mondo dove “tutto” ebbe inizio: la Rift Valley. Lì
ancora vivono popoli nudi e fierissimi, diretti discendenti dei nostri
antenati: i Dorze, i Konso, gli Hamar, i Surma ed i Mursi.
Ci avvicinammo da sud e le ore centrali del
giorno condizionavano ogni gesto della guida e della navigazione con un caldo che,
oltre che soffocante, era anche veramente prepotente; la polvere della discesa
riempiva l’interno della macchina e ci asciugava il sudore impastandolo; le
rive del lago, infestate da un numero inconsueto di coccodrilli, ci suggerivano
di non cedere alla tentazione di rinfrescarsi; la poca terra che trovammo tra
le inospitali rocce laviche non era sufficientemente generosa per le
coltivazioni. C’erano solo poche cose da catalogare ma tutti gli elementi da
sperimentare: la luce, l’acqua, il vento, il caldo di fuoco, la paura e tutto
ciò che ne derivava.
Il paesaggio era (ed è) primordiale e manifesta,
senza alcuna remora, la sua forza soverchiante e annichilente.
Impiegammo quasi 3 ore a percorrere 85 km e
finalmente riuscimmo a raggiungere le rive del lago nei pressi di Loyangalani dove
ci vennero incontro quattro bambini El Molo con un’età compresa tra i tre e gli
otto anni; questi ultimi sembravano già degli adulti. Ma come facevano questi
bambini, pressoché nudi, a sopravvivere in un simile ambiente?
Gli El
Molo, come scrive l’Indiana Jones italiano, l’antropologo e ricercatore
italiano Alberto Salza che ho avuto la fortuna di conoscere in quelle
savane, “sono un mistero. Non solo perché non si capisce come facciano
a sopravvivere alle temperature e alle durezze cui sono sottoposti dal Turkana,
ma anche perché non sono antropologicamente ben definibili (…) non sono nemmeno
una tribù. (…) Oggi gli El Molo parlano la lingua dei Samburu ma alcuni vecchi
ricordano termini di una lingua perduta, probabilmente di origine cuscita,
simile a quella parlata da vicini Rendille”.
Spegnemmo il motore ed il rumore dei pistoni
lasciò il posto a quello del vento. I bambini ci fecero capire, senza
insistenza e senza invadenza che avrebbero voluto farci conoscere la loro
famiglia.
Dopo pochi passi arrivammo ad una capanna “a
secco”, fatta di rami di acacia ricoperti da alghe essiccate e stracci.
Un vecchio, quasi cieco, era seduto su un sasso
e si appoggiava fieramente al suo bastone.
Non riuscivo a comunicare, neanche con il mio
stentato ma semplice kiswahili che avevo studiato con entusiasmo per tre mesi
dai Missionari della Consolata a Milano. Il linguaggio dei gesti e la mimica
facciale sono, però, sempre universali.
Quasi subito feci provare i miei occhiali al
patriarca rompendo così il ghiaccio (che lì si scioglierebbe, comunque, in
trenta secondi). Ricorderò per sempre l’espressione del vecchio, che forse avrà
avuto poco meno della nostra attuale età: fu per me un regalo enorme! Aveva
ripreso a vedere qualcosa con degli occhiali che comunque non erano certamente
per lui. Se ne avessi avuto un altro paio, glieli avrei sicuramente regalati.
Fu lui a ridarmeli in modo molto dignitoso. In quei pochi minuti che restammo
insieme a quella micro-comunità potei rendermi conto di qualcosa che ancora oggi
ritengo essere un buon tema su cui riflettere quotidianamente: queste genti (e
non solo esclusivamente loro) sanno e conoscono esattamente tutto ciò che
posseggono; io non so neanche quello che ho sulla mia scrivania. Sanno
certamente di quanti pezzi è composta la loro casa, sanno quante ciotole hanno
e quali utensili e, se più complessi di un bastone, ne conoscono l’intrinseca
composizione e numero di componenti. Sanno quante perline hanno e quante
scatoline ricavate da vecchi barattoli, che forse chiamano per nome. Ciò che
hanno è ciò che sono senza voler essere quello che vorrebbero essere. Non c’è
identificazione o status symbol. Ogni cosa, che sarebbe per noi insignificante,
è per loro di un valore enorme, ma comune, che fa diventare quell’oggetto
ancora più prezioso. Nonostante tutto, forse sanno bene che quel nulla
che hanno non è comunque indispensabile.
Avete mai provato a contare gli oggetti, singoli e scomposti, che avete addosso
(non oserei certamente chiedervi cosa avete, ad esempio… in macchina). Quando
dico contare intendo sapere anche come sono composti: la vostra biro di quanti
bellissimi e fondamentali pezzi è fatta? I vostri vestiti, quanti
bottoni hanno? La vostra borsa, le maniglie, la chiusura… la lampo… le tasche,
tutte le parti? Non chiediamo però mai alle nostre donne cosa contengono le
loro borse; non lo sanno nemmeno loro! Ma anche noi non sappiamo quello che
abbiamo e, anche dopo un immenso sforzo intellettuale, non riusciremmo mai a
scoprirlo. Loro no; gli El Molo, come molti altri esseri viventi del nostro
pianeta, per noi tanto “diversi” e poco vicini, hanno questa grande fortuna di
riconoscere e conoscere perfettamente loro stessi, non solo rispecchiandosi
nelle acque infestate dai loro coccodrilli ma anche vedendosi, senza arroganza,
nelle numerabili e semplicissime cose che hanno. Senza arroganza ma con
pudico orgoglio.
1986 - Zanzibar - In rada davanti a Stone Town arrivando con un mercantile da Tanga (non quello tra le chiappe...)
1986 - Kenya - Maweni - "robe" da nomadi motorizzati
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COME PASSARE IL CONFINE SOVIETICO... con creatività
29.03.2020
Era l’estate del 1990, avevo trent’anni, i capelli neri ed ero partito da Milano con l’intenzione di “circumnavigare” il Mar Nero e scollinare il Caucaso fino a Baku in Azerbaijan. Con me c’erano Gianni Perotti, il mio amico di tanti viaggi, architetto e giornalista, sua moglie Mila, esperta di cucine lontane ed olii ed “il Renato” colto navigatore distratto di quest’unico viaggio condiviso.
Io e Renato avremmo incontrato Gianni e Mila ad Istanbul. Loro erano partiti dall'isoletta cicladica di Schinoussa; noi dalla Milano "da bere". Loro attraverso il Mare Egeo con lo Skopelitis e noi lungo la Yugo, prima della grande tragedia che sarebbe cominciata l'anno successivo, nel 1991.
Ad Istanbul, ancora caotica e sempre meravigliosa, si incominciavano a vedere i primissimi turisti dell'est, provenienti da Germania, Polonia, Cecoslovacchia (ancora unita), Ungheria, Bulgaria e Romania. Viaggiavano in treno o in autostop. Quelli meno poveri si spostavano a bordo di Trabant a due tempi o di vecchie Lada-Zigulì; chi era più fortunato, guidava la nuova Wartburg 1.3.
Volevamo entrare in Unione Sovietica prima della fine dell'impero. Sentivamo che sarebbe accaduto. Non c'era più tempo.
Lasciata la "seconda Roma" ci muovemmo, quindi, verso la Cappadocia.
Proprio in quella incredibile regione, dopo i primi 11 giorni di strade e piste polverose, il karma non sembrava più così favorevole: in mezzo alla Turchia la mia nuova fuoristrada era andata completamente distrutta in fondo ad un burrone (ma questa è un’altra storia) ed era appena scoppiata, da pochi giorni, la prima guerra Guerra del Golfo in Iraq.
Ancora frastornato dalla perdita del mio mezzo, pensieroso per i miei primi veri venti di guerra di cui sentivo da vicino fischiare l’aria, ci portammo tutti e quattro ad est, con l'unica Toyota rimasta, sul confine sovietico, di Sarp e dopo aver perso, 230 km prima, la Trebisonda…
In quegli anni, per entrare in Turchia, era obbligatorio indicare la targa della macchina sul passaporto (perché bisognava riportarsela in Italia). La mia, però, era in fondo al burrone... ed, ovviamente, per entrare in Unione Sovietica ci sarebbe servito il passaporto. Ai turchi, però non avrei potuto mostrarlo. Che fare? Semplice, bisognava attivare la modalità “creativa”. Ed ecco l’illuminazione: avremmo convinto i militari di frontiera ottomani che il nostro governo aveva appena stipulato un accordo con l’URSS secondo cui i cittadini italiani potevano entrare nel paese della falce e martello con la semplice carta di identità. Quello col passaporto sarebbe stato soltanto Gianni che guidava l’unica auto (registrata) rimasta.
Con una perfetta faccia alla Alberto Sordi mostrammo ai due controllori le tre carte di identità ed il passaporto di Gianni che era alla guida del suo Toyota HZJ73, rosso e bianco e tanto fango. Il sergente Mehmet e la sua spalla Evrem sembrarono subito molto perplessi affermando, in prima battuta, che non sarebbe stato possibile. “Sergente Mehmet, se non sarà possibile, ci vedrà tornare indietro”, dissi io in inglese, sporgendomi da dietro verso il finestrino anteriore. Gianni, che era alla guida, aveva provato col francese ma, in quel frangente, non era funzionale. I due militari si allontanarono con i nostri preziosissimi documenti per consultarsi sicuramente con un superiore, sparendo all’interno degli uffici. Fu uno dei quarti d’ora più lunghi dei miei primi trent’anni.
Quando riapparvero dalla porta principale del lungo edificio azzurro sbiadito alla nostra destra, si capiva da subito che avevano gettato la spugna. Osservandoci con curiosità ed attenzione, tenendo entrambi i pollici delle mani nel cinturone di ordinanza, ci lasciarono raggiungere, 50 metri più in là, la postazione sovietica. Dai sorrisi di sfida era evidente che fossero certi che i sovietici ci avrebbero respinto.
Invece non andò così: l’ufficiale di frontiera, con il tipico cappello dalla visiera ripida e la tesa anteriore spropositatamente alta ed impennata, ci salutò molto cordialmente con un accogliente “priviet… kak dielà? Italiansky?” (привет…, как дела? Итальянский?) – In realtà non passavano mai “viaggiatori occidentali” ma solamente pochi camionisti baffuti, che percorrevano lo stesso confine in entrambe le direzioni e per questo erano molto gentili ed incuriositi - “molto bene! Grazie! Ecco i nostri passaporti con i visti” (questo era più un pensiero tradotto dai gesti che una risposta pronunciata): il tenente Aleksey non parlava né il francese e né l’inglese; tantomeno l’italiano ed il mio russo, al tempo, si limitava ad uno “spazibo” e poco più. Ovviamente le guardie russe di frontiera neanche si accorsero del timbro turco con la targa della mia macchina.
Con quattro timbri sui passaporti ed un marziale gesto della mano alla visiera del tenente Aleksey e della amazzone slava al suo fianco, ottenemmo il nostro primo ed ultimo lasciapassare per l'Unione Sovietica.
Lasciammo gli attoniti gendarmi turchi, 50 metri indietro, guardarci scomparire oltre il parcheggio del check point sovietico, verso la spiaggia di Sarpi e la chiesa di Sant’Andrea Apostolo, al tempo “poco” consacrata.
Alla fine, entrare nella terra degli zar, fu un gioco da ragazzi: avevamo vinto noi.
In 50 metri il colore dell’incarnato era cambiato tre volte: da quello del levantino turco, mediamente abbastanza “abbronzato” anche se non standardizzabile per una popolazione di così lontana origine altaica che si è successivamente mischiata come un mazzo di carte da poker, all’algida pelle di militari e soldatesse russe di passaggio, per arrivare al mediterraneo/caucasico e, per certi aspetti sud-italico, colore dei georgiani che già ci guardavano stupiti 500 metri dopo il check point.
La Toyota di Gianni era targata Roma. Al tempo, la targa della capitale riportava scritto per esteso "Roma" e questa parola, di eco universale, valeva più di qualsiasi visto.
Il problema principale, alla fine, era stato soltanto quello dei sedili su cui avevamo attraversato la frontiera e sui quali avremmo dovuto continuare il nostro viaggio. Fino a metà Turchia avevamo viaggiato su due veicoli con due posti ciascuno. Dopo il volo nel burrone della mia Toyota, avevamo dovuto approntare una seconda fila di posti sul fuoristrada di Gianni: una panca rudimentale costruita da un fabbro di Malatya utilizzando, come seduta, i pezzi di quattro cassette di legno per la verdura, ricoperte di stracci e kilim recuperati al mercato di Malatya.
Eravamo così, scomodamente, appena entrati in Georgia ma anche in un mondo che, teoricamente, non esiste più…
1990 - Unione Sovietica - Crimea - distretto di Kerc - alla ricerca di memorie della Repubblica di Genova
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1987 - In Ape lungo il Nilo
1987 - Egitto on the road - in Ape
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1989 - Finlandia - da veri nomadi in giro per la Scandinavia
1989 - Norvegia - sentimenti evergreen
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1991 - Maloia - Alpirod - Reporter dall'elicottero
1991 - Maloia - Alpirod - Reporter a meno ventinove gradi centigradi
1991 - Maloia - Alpirod - musher, conduttore di una muta di cani da slitta
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1994 - Estonia - Landing strip
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2011 - Genova - in coda al traghetto
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2016 - Esfahan - Iran - Ponte Khaju
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Che bello partire con voi!
Ho voluto chiamare la mia rubrica “Pensieri Nomadi” perché, anche se forse ormai non si percepisce più, durante i miei quasi 60 anni su questo pianeta, ne ho passati quasi 2 dormendo qui e là, quasi sempre dentro un veicolo, assaggiando aria, cibo e storie di posti lontani.
Vorrei farvi partecipi di qualche esperienza nomadica, reale o virtuale; proverò a raccontarvi storie vicine e lontane che potrebbero aiutarci a sognare qualcosa d’ALTRO (non ad “evadere” altrimenti Maria potrebbe preoccuparsi)…
16.03.2020
Ciao isolati della Repubblica di Genova!
Nella rubrica di Paola ho inserito i miei primi due suggerimenti di lettura, facili facili, per distrazioni veloci in discontinuità.
Il primo è una riproposta, "Parole e polvere", del mio compagno di viaggio Paolo Brovelli mentre il secondo sono altri appunti di viaggio (Vietnam low cost: avventura senza soldi su una bici scassata) di un altro mio amico nomade, Renato Sensibile che da qualche anno ha fatto base sulle montagne della Galizia.
Naturalmente se sai viaggiare col cuore aperto, ma tu ne sei capace….