L'angolo del Sibilla - gli scompaginati

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L'angolo del Sibilla

RUBRICHE
a cura di Antonio Sibilla
Jan Brokken 1949
L'anima delle città Iperborea

........ E questo per Beuys fu piuttosto semplice.
Disegnò sempre meno e realizzò sempre meno
sculture per dedicarsi alla diffusione della sua idea
fondamentale, che l'arte è l'unica forza rivoluzionaria
della società. Beuys era convinto che l'umanità
fosse giunta a una terribile crisi ecologica perché
aveva creato una netta sepa razione fra scienza,
arte e lavoro. Per lui il pensiero era un'opera d'arte.
E questo lo avvicinò a Marcel Duchamp. In realtà,
disse, lui ripeteva Duchamp. Duchamp mise un
orinatoio in un museo; lui fece lo stesso con una
vasca da bagno che aveva esposto nel museo di
Wuppertal, col legandola all'idea di «scultura sociale».
Secondo Beuys, Duchamp non era andato abbastanza
lontano. Ha messo l'orinatoio nel museo perché trovava
che quell'oggetto fosse un'opera d'arte. Ma ha dimenticato
che, di conseguenza, chi ha costruito quell'orinatoio
è un artista. E così si arriva alla mia idea. Secondo
me, oragnuno di noi è un artista.
..........



Michel Houellebecq 1958
Annientare La Nave di Teseo ........
"In tutte le civiltà precedenti," disse alla fine,
"ciò che determinava la stima, o anche
l'ammirazione che si poteva avere per un uomo,
ciò che permetteva di giudicare il suo valore, era il
modo in cui si era effettivamente comportato per
Tutta la vita;
perfino l'onorabilità borghese veniva accordata,
ma solo sulla fiducia, a titolo provvisorio; poi
bisognava meritarsela, con tutta una vita di onestà.
Attribuendo più valore alla vita di un bambino,
quando non abbiamo nessunissima idea di cosa
diventerà, se sarà intelligente o stupido, un genio,
un criminale o un santo, neghiamo ogni valore
alle nostre azioni reali. I nostri atti di eroismo o di
generosità, tutto ciò che siamo riusciti a realizzare,
i nostri traguardi, le nostre opere, niente di tutto
questo ha più il minimo valore agli occhi del mondo; e ben presto
non ne ha più nemmeno ai nostri occhi.
In questo modo priviamo la nostra vita d'ogni
motivazione e di ogni senso; è puro nichilismo.
Svalutare il passato e il presente a beneficio del
futuro, svalutare il reale per preferirgli una virtualità
situata in un vago avvenire... questi sono sintomi
del nichilismo europeo ben più decisivi di tutti
quelli che ha potuto scorgere Nietzsche; be',
a questo punto dovremmo parlare di nichilismo
occidentale, se non addirittura di nichilismo
moderno, non sono affatto sicuro che i paesi
asiatici saranno risparmiati nel medio termine.
È vero che Nietzsche non poteva individuare
il fenomeno, che si è manifestato solo molto tempo
dopo la sua morte. Quindi no, in effetti, non
sono cristiano; tendo anzi a ritenere che sia
cominciata proprio con il cristianesimo, questa
tendenza a rassegnarsi al mondo presente,
per quanto insopportabile sia, nell'attesa di un
salvatore e di un avvenire ipotetico; il peccato
originale del cristianesimo, per come la vedo io,
è la speranza."
.......


Michel Houellebecq 1958
La ricerca della felicità Bompiani

Ci sono momenti nella vita in cui si ha quasi l'impressione di udire l'ironico fru fru del tempo che passa, e la morte segna dei punti nei nostri confronti.
Ci si annoia un po', e si accetta di distogliersi prov
visoriamente dall'essenziale per consacrare alcuni minuti al compimento di un lavoro noioso e senza gioia ma che si crede va rapido, e poi ci si volta e ci si accorge con scoramento che altre due ore sono scivolate nel vuoto, il tempo non ha pietà di noi.
Il luogo in cui i nostri gesti si svolgono e si inseriscono armoniosamente nello spazio e suscitano la loro cronologia, il luogo in cui tutti i nostri esseri sparsi camminano affiancati e in cui è abolito ogni divario, il luogo magico dell'assoluto e della trascendenza. In cui la parola è canto, in cui l'andatura è danza, non esiste sulla Terra, ma noi camminiamo verso di esso.



Fernando Pessoa

Il libro del l'inquietudine


(456)

La libertà è la possibilità dell'isolamento. Sei libero se puoi allontanarti dagli uomini senza che ti obblighi a cercarli il bisogno di denaro, o il bisogno gregario, o l'amore, o la gloria, o la curiosità, che non si addicono al silenzio e alla solitudine. Se è impossibile per te vivere da solo, sei nato schiavo. Puoi avere ogni grandezza, ogni nobiltà d'animo: sei uno schiavo nobile, o un servo intelligente; non sei libero. E la tragedia non ti riguarda, perché la tragedia del fatto che tu sia nato così non riguarda te ma riguarda soltanto il destino. Povero te, però, se l'oppressione della vita ti obbliga ad essere schiavo. Povero te se, nonostante tu sia nato libero, capace di bastare a te stesso e di appartarti, la necessità ti costringe a convivere. Questa è la tua tragedia, la tragedia

che porti con te. Il fatto di nascere libero è la maggior grandezza dell'uomo, ciò che rende l'umile eremita superiore ai re e addirittura agli dei, che sono sufficienti a se stessi per la forza, ma non per il disprezzo di essa.

La morte è una liberazione perché morire è non aver bisogno degli altri. Il povero schiavo si vede affrancato a forza dai piaceri, dalle pene, dalla sua vita amata e ininterrotta. Il re si vede affrancato dai possessi che non voleva lasciare. Le donne che offrivano amore si vedono affrancate dai trionfi che adorano. I vincitori si vedono affrancati dalle vittorie alle quali votarono la vita.

Perciò la morte nobilita, riveste di gale ignote il povero corpo assurdo. Perché in essa c'è un uomo liberato, anche se costui non voleva esserlo. Perché in essa non c'è uno schiavo, anche se costui ha pianto nel perdere la schiavitù. Come un re la cui magnificenza consiste nel suo nome di re, e che può ssere risibile in quanto uomo ma è superiore in quanto re similmente il morto può essere deforme, ma è superiore perché la morte l'ha affrancato.

Stanco, chiudo le imposte delle finestre, escludo il mondo e per un momento posseggo la libertà. Domani sarò di nuovo schiavo; ma ora, solo, senza bisogno di nessuno, con l'unico timore che una voce o una presenza vengano a interromper mi, ho la mia piccola libertà, i miei momenti eccelsi.

Seduto su questa sedia, dimentico la vita che mi opprime. E mi addolora soltanto il fatto che essa mi abbia addolorato.




REALISMO MAGICO

La pittura italiana del Novecento interpretazione e sintesi della storia dell'arte italiana coniugata con il sentimento del tempo. Da vedere e pensare. 


https://www.google.com/url?sa=t&source=web&rct=j&url=https://www.palazzorealemilano.it/mostre/realismo-magico&ved=2ahUKEwjMjeiUw5f0AhXEsaQKHdspD7cQFnoECDMQAQ&usg=AOvVaw3jSwqGsFKDjXVZZaZSI9Q6



Marija Stepanova Mosca, 1972

 

Memoria della memoria    Bompiani

 

....... Tzvetan Todorov dice che la memoria oggi diventa un nuovo culto, oggetto di adorazione di massa. Ora più che mai mi sembra che l'ossessione globale per la memoria sia solo la base, la condizione indispensabile per un altro
culto: la religione del passato inteso secondo il vecchio modello come un frammento dell'età dell'oro, prova del fatto che prima era meglio.
Soggettività e selettività della memoria consentono di scegliere qualsiasi segmento storico che con la storia da tempo non ha più nulla a che fare: per qualcuno anche gli anni trenta del XX secolo possono diventare un paradiso perduto di innocenza e immutabilità. Soprattutto in tempi di angosciosa paura dell'i A confronto con il futuro, in cui non si vuole andare, ciò che è già accaduto è per così dire addomesticabile e sembra gnoto. addirittura tollerabile.

Questo culto ha un sosia: i due si rispecchiano a vicenda come le estremità di un ferro di cavallo; tra loro ora si è pietrificata l'attualità che mette in discussione se stessa. Anche l'infanzia, il secondo oggetto del nostro amore colpevole, sembra spacciata perché finisce, e anche la sua presunta innocenza deve essere preservata, cullata, difesa a tutti i costi. Sia il passato sia l'infan zia sono intesi come stasi, equilibrio costantemente in pericolo, e soprattutto sono apprezzati nelle società in cui il passato è costantemente distorto, e dell'infanzia è facile abusare.

 

L'intero mondo contemporaneo, con i suoi progetti conser vativi e le sue ricostruzioni, respira l'aria della post-memoria: tentativi di diventare great again, di riconquistare il vecchio ordine senza precedenti. Lo schermo è bifacciale, a quanto pare possono proiettarvi le proprie paure, speranze e storie non solo coloro che sono nel vortice, ma anche i nipoti e pronipoti della maggioranza silenziosa che aspettava il momento giusto, di estrarre la propria versione dei fatti remoti. La Russia, dove il vortice della violenza è proseguito senza tregua formando una sorta di enfilade di traumi lungo cui la società passa di disastro in disastro, dalla guerra alla rivoluzione, dalla fame alle repressioni di massa, a una nuova guerra, a nuove repressioni, è diventata il territorio della memoria rimossa un po' prima di altri. Le versioni di ciò che ci è successo negli ultimi cento anni, sdoppiandosi, triplicandosi nell'increspatura delle incongruenze, sottraggono alla luce il presente come un foglio di carta opaca.


Fernando Pessoa Lisbona, 1888-193

Il libro dell'inquietudine     Universale Feltrinelli

.... 7 (63)
Sono entrato dal barbiere con la disposizione consueta col piacere che mi dà il fatto di poter entrare senza imbarazzo nei luoghi conosciuti. La mia sensibilità al nuovo è terribile: mi sento calmo solo nei luoghi in cui sono già stato. Mentre mi accomodavo sulla poltrona mi é venuto fatto di domandare al garzone che mi stava collocando intorno al collo un lino freddo e pulito, come stesse il suo collega che
serviva alla poltrona accanto, quel tipo spiritoso, più anziano di lui, che era malato. Glielo ho domandato senza che mi premesse sapere: è stata una domanda suggerita dal luogo e
dal ricordo. 'E morto ieri," mi ha risposto senza tono la voce
che stava dietro di me e le cui dita stavano finendo di inserire l'asciugamano fra la mia nuca e il mio colletto. Tutto il mio immotivato buonumore è svanito all'improvviso, come il barbiere della poltrona accanto assente per l'eternità. E sceso il freddo sui miei pensieri. Non ho detto niente. 
Nostalgia! Ho nostalgia perfino di ciò che non è stato niente per me, per l'angoscia della fuga del tempo e la malattia del mistero della vita. Volti che vedevo abitualmente nelle mie strade abituali: se non li vedo più mi rattristo; eppure non mi sono stati niente, se non il simbolo di tutta la vita. Il vecchio anonimo dalle ghette sporche che mi incrocia-
va quasi sempre alle nove e mezzo del mattino? Il venditore zoppo dei biglietti della lotteria che mi seccava senza succes-
so? Il vecchietto tondo e rubizzo, col sigaro in bocca, che sostava sulla porta della tabaccheria? Il pallido tabaccaio? Cosa ne sarà di tutti costoro che, solo per averli sempre visti, hanno fatto parte della mia vita? Domani anch'io scomparirò da Rua da Prata, da Rua dos Douradores, da Rua dos Fanqueiros. Domani anch'io- l'anima che sente e pensa, l'universo che io sono per me stessO- si, domani anch'io sarò soltanto uno che ha smesso di passare in queste strade, uno che altri evocheranno vagamente con un "che ne sarà stato di lui?". E tutto quanto ora faccio, quanto ora sento e vivo non sarà niente di più che un passante in meno nella quotidianità delle strade di una città qualsiasi.
.....





Karl Ove Knausgard (19689) Scrittore Norvegia

La morte del Padre  Universale Economica Feltrinelli

…………

Riconoscevo la sensazione, assomigliava a quella che sapevano risvegliare in me alcune opere d’arte. L’autoritratto di Rembrandt da vecchio alla National Gallery di Londra era un dipinto del genere, quello di Turner raffigurante il tramonto sul mare davanti a un antico porto, sempre nello stesso museo, il Cristo nell’orto di Getsemani di Caravaggio. Anche Vermeer suscitava in me lo stesso, così come qualche dipinto di Claude, alcuni di Ruisdael e degli altri paesaggisti olandesi, qualcuno di J.C. Dahl, quasi tutti quelli di Hertervig… Ma nessuno dei dipinti di Rubens, né di Manet, né dei pittori francesi o inglesi del Settecento, a eccezione di Chardin, non Whistler e neppure Michelangelo e soltanto uno di Leonardo da Vinci. Quella esperienza non favoriva nessuna epoca precisa e neppure alcun pittore in particolare dal momento che poteva riguardare soltanto un unico dipinto di un artista mentre lasciava il resto delle sue opere in pace. Non aveva neanche a che fare con quella che normalmente si chiama qualità: potevo rimanere freddo davanti a quindici dipinti di Monet e percepire un calore improvviso diffondersi nel corpo davanti a un impressionista finlandese che poche persone al di fuori della Finlandia hanno sentito nominare. Che cosa fosse in queste opere che mi impressionava a tal punto, non lo sapevo. Ma era palese che tutte fossero state dipinte prima del Novecento, nell’ambito di quel paradigma artistico che non aveva mai abbandonato del tutto il riferimento alla realtà visibile. In essi esisteva sempre una certa oggettività, cioè una distanza tra la realtà e la sua raffigurazione, e doveva essere in quello spazio dove “accadeva”, dove si manifestava quello che io vedevo, quando il mondo sembrava scaturire ed emergere dal mondo. Quando non si recepiva soltanto l’inafferrabile a esso sussunto, ma gli si arrivava molto vicino. Ciò che rappresentava l’inesprimibile, che nessuna parola era in grado di raggiungere e che pertanto rimaneva sempre fuori dalla nostra portata, pur trovandosi entro i suoi limiti, perché non soltanto ci circondava, noi stessi ne eravamo parte, ne eravamo fatti. Che l’estraneo e l’enigmatico fossero qualcosa che ci riguardasse aveva spinto i miei pensieri verso gli angeli, queste creature misteriose che non solo partecipavano del divino, ma anche dell’umano e quindi meglio di qualunque altra figura esprimevano la dualità della natura insita nell’alieno. Al contempo c’era qualcosa di profondamente insoddisfacente sia nei dipinti sia negli angeli dal momento che entrambi appartenevano in modo così incontrovertibile al passato, o meglio a quella parte di passato che ci eravamo lasciati alle spalle, che non si adattava al mondo che ci eravamo creati, dove il grande, il divino, il solenne, il santo, il bello e il vero non costituivano più grandezze valide, ma al contrario qualcosa di ambiguo, dubbioso o addirittura ridicolo. Ciò voleva dire che l’immensità del mondo esterno, che fino all’epoca dell’Illuminismo era rappresentata dal divino, che giungeva a noi tramite la rivelazione, e che nel Romanticismo era costituita dalla natura, dove il concetto di rivelazione si manifestava attraverso il sublime, non aveva più nessuna forma di espressione. Nell’arte il mondo esterno era sinonimo di società, quindi delle aggregazioni umane, che con le sue concettualizzazioni e i suoi relativismi operava pienamente e totalmente nell’ambito del mondo interno. Nella storia dell’arte norvegese la rottura giunse con Munch, fu nelle sue opere che per la prima volta l’essere umano occupò lo spazio intero. Mentre fino all’Illuminismo l’uomo veniva subordinato al divino e nel Romanticismo al paesaggio in cui era ritratto – le montagne sono maestose e imponenti, il mare è grande e dirompente, persino gli alberi e i boschi sono magnifici e grandiosi mentre gli esseri umani, senza eccezione, sono piccoli – in Munch avviene il contrario. È come se l’umano introiettasse tutto dentro di sé, si impadronisse di ogni cosa. Le montagne, il mare, gli alberi e i boschi, tutto assume le tinte dell’umano. Non le azioni e la vita esteriore dell’uomo, ma i suoi sentimenti, emozioni e la sua vita interiore. E una volta che l’essere umano aveva preso il sopravvento, non parve più possibile tornare indietro, come non lo fu con il Cristianesimo quando nei primi secoli della nostra epoca cominciò a diffondersi e a divampare come un incendio in tutta l’Europa. In Munch gli esseri umani sono una figura, la loro vita interiore riceve una forma esteriore, fanno vacillare, tremare il mondo e una volta aperta la porta ciò che rimase fu il mondo inteso come gestalt, come forma; nei pittori dopo Munch sono i colori in sé, le forme stesse, non quello che rappresentano, a essere emotivamente carichi. Allora ci troviamo in un mondo figurativo dove l’espressione in sé è tutto, cosa che ovviamente significa che nell’arte non esiste più nessuna dinamica tra l’esterno e l’interno, ma solo una scissione, o per dirlo in altro modo, l’arte era un mondo a sé. All’apice del Modernismo questa divisione tra arte e mondo era pressoché assoluta. Ciò che veniva ammesso in questo mondo era ovviamente una questione di valutazione, e presto questo giudizio divenne il nucleo portante dell’arte, che in questo modo poteva, e fino a un certo punto fu costretta per non suicidarsi, aprirsi verso gli oggetti del mondo reale, e nello stato che noi abbiamo raggiunto adesso, dove il materiale dell’arte non ha più nessuna importanza, tutto si basa su cosa esprime, quindi non ciò che è, ma ciò che pensa, di quali idee è portatrice, in modo che si è rinunciato all’ultimo resto di oggettività, all’ultimo resto di qualcosa di esterno all’umano. L’arte è diventata un letto disfatto, qualche fotocopiatrice in una stanza, una motocicletta appesa a un soffitto. E l’arte è diventata il pubblico stesso, il modo in cui reagisce, ciò di cui scrive la stampa: l’artista uno che recita. È così. L’arte non ha niente al di fuori di sé, la scienza non ha niente al di fuori di sé, la religione non ha niente al di fuori di sé. Il nostro mondo è chiuso in se stesso, chiuso su di noi, e non esiste più nessuna via per uscirne. Coloro che in questa situazione chiedono a gran voce una maggiore presenza dello spirito, una maggiore spiritualità, non hanno capito niente, perché il problema è che lo spirito ha preso il sopravvento su ogni cosa. Tutto è diventato spirito, persino i nostri corpi, che non sono più corpi, ma idee sui corpi, qualcosa che si trova nel firmamento di immagini e rappresentazioni presenti in noi e sopra di noi, dove viene vissuta una parte sempre più consistente delle nostre vite. I confini con ciò che non parla a noi, l’inafferrabile, sono stati aboliti. Capiamo tutto e lo facciamo perché abbiamo ricondotto ogni cosa a noi stessi. È eclatante che tutti coloro che si sono occupati del neutro, del negativo, del non-umano nell’arte, ai nostri giorni hanno rivolto la loro attenzione alla lingua e al linguaggio, è lì che hanno cercato l’incomprensibile e l’estraneo, come se si trovassero nella zona di confine delle possibilità e delle modalità espressive che descrivono l’essenza dell’umano, dunque al limite più assoluto di quello che siamo in grado di comprendere, e questo ha in effetti una sua logica: dove altro potrebbe risiedere in un mondo che non riconosce e non legittima più ciò che si trova al suo esterno? È in questa luce che va visto il ruolo stranamente ambiguo che ha assunto la morte. Da un lato è ovunque, siamo sommersi da notizie che la riguardano, immagini di morti: sotto questo aspetto per la morte non esistono confini, è preponderante, onnipresente, inesauribile. Ma questa è la morte intesa come rappresentazione, la morte senza corpo, la morte come pensiero e immagine, la morte come spirito. Questa morte equivale alla morte del nome, all’incorporeo a cui si fa riferimento quando si usa il nome di una persona defunta. Perché, mentre il nome, finché l’essere umano che esso denota è ancora in vita, si riferisce al corpo, ovunque quest’ultimo si trovi e indipendentemente da cosa stia facendo, il nome si separa dal corpo quando esso muore, per rimanere tra i vivi, che con il nome indicano sempre quello che era il defunto, mai ciò che è adesso, un corpo che si sta putrefacendo da qualche parte. Questa componente della morte che appartiene al corpo ed è concreta, fisica, materiale, questa morte viene tenuta nascosta con una tale meticolosità da assomigliare a una specie di frenesia, e funziona, basta sentire come si esprimono solenne, il santo, il bello e il vero non costituivano più grandezze valide, ma al contrario qualcosa di ambiguo, dubbioso o addirittura ridicolo. Ciò voleva dire che l’immensità del mondo esterno, che fino all’epoca dell’Illuminismo era rappresentata dal divino, che giungeva a noi tramite la rivelazione, e che nel Romanticismo era costituita dalla natura, dove il concetto di rivelazione si manifestava attraverso il sublime, non aveva più nessuna forma di espressione. Nell’arte il mondo esterno era sinonimo di società, quindi delle aggregazioni umane, che con le sue concettualizzazioni e i suoi relativismi operava pienamente e totalmente nell’ambito del mondo interno. Nella storia dell’arte norvegese la rottura giunse con Munch, fu nelle sue opere che per la prima volta l’essere umano occupò lo spazio intero. Mentre fino all’Illuminismo l’uomo veniva subordinato al divino e nel Romanticismo al paesaggio in cui era ritratto – le montagne sono maestose e imponenti, il mare è grande e dirompente, persino gli alberi e i boschi sono magnifici e grandiosi mentre gli esseri umani, senza eccezione, sono piccoli – in Munch avviene il contrario. È come se l’umano introiettasse tutto dentro di sé, si impadronisse di ogni cosa. Le montagne, il mare, gli alberi e i boschi, tutto assume le tinte dell’umano. Non le azioni e la vita esteriore dell’uomo, ma i suoi sentimenti, emozioni e la sua vita interiore. E una volta che l’essere umano aveva preso il sopravvento, non parve più possibile tornare indietro, come non lo fu con il Cristianesimo quando nei primi secoli della nostra epoca cominciò a diffondersi e a divampare come un incendio in tutta l’Europa. In Munch gli esseri umani sono una figura, la loro vita interiore riceve una forma esteriore, fanno vacillare, tremare il mondo e una volta aperta la porta ciò che rimase fu il mondo inteso come gestalt, come forma; nei pittori dopo Munch sono i colori in sé, le forme stesse, non quello che rappresentano, a essere emotivamente carichi. Allora ci troviamo in un mondo figurativo dove l’espressione in sé è tutto, cosa che ovviamente significa che nell’arte non esiste più nessuna dinamica tra l’esterno e l’interno, ma solo una scissione, o per dirlo in altro modo, l’arte era un mondo a sé. All’apice del Modernismo questa divisione tra arte e mondo era pressoché assoluta. Ciò che veniva ammesso in questo mondo era ovviamente una questione di valutazione, e presto questo giudizio divenne il nucleo portante dell’arte, che in questo modo poteva, e fino a un certo punto fu costretta per non suicidarsi, aprirsi verso gli oggetti del mondo reale, e nello stato che noi abbiamo raggiunto adesso, dove il materiale dell’arte non ha più nessuna importanza, tutto si basa su cosa esprime, quindi non ciò che è, ma ciò che pensa, di quali idee è portatrice, in modo che si è rinunciato all’ultimo resto di qualcosa di esterno all'umano.

 L’arte è diventata un letto disfatto, qualche fotocopiatrice in una stanza, una motocicletta appesa a un soffitto. E l’arte è diventata il pubblico stesso, il modo in cui reagisce, ciò di cui scrive la stampa: l’artista uno che recita. È così. L’arte non ha niente al di fuori di sé, la scienza non ha niente al di fuori di sé, la religione non ha niente al di fuori di sé. Il nostro mondo è chiuso in se stesso, chiuso su di noi, e non esiste più nessuna via per uscirne. Coloro che in questa situazione chiedono a gran voce una maggiore presenza dello spirito, una maggiore spiritualità, non hanno capito niente, perché il problema è che lo spirito ha preso il sopravvento su ogni cosa. Tutto è diventato spirito, persino i nostri corpi, che non sono più corpi, ma idee sui corpi, qualcosa che si trova nel firmamento di immagini e rappresentazioni presenti in noi e sopra di noi, dove viene vissuta una parte sempre più consistente delle nostre vite. I confini con ciò che non parla a noi, l’inafferrabile, sono stati aboliti. Capiamo tutto e lo facciamo perché abbiamo ricondotto ogni cosa a noi stessi. È eclatante che tutti coloro che si sono occupati del neutro, del negativo, del non-umano nell’arte, ai nostri giorni hanno rivolto la loro attenzione alla lingua e al linguaggio, è lì che hanno cercato l’incomprensibile e l’estraneo, come se si trovassero nella zona di confine delle possibilità e delle modalità espressive che descrivono l’essenza dell’umano, dunque al limite più assoluto di quello che siamo in grado di comprendere, e questo ha in effetti una sua logica: dove altro potrebbe risiedere in un mondo che non riconosce e non legittima più ciò che si trova al suo esterno? È in questa luce che va visto il ruolo stranamente ambiguo che ha assunto la morte. Da un lato è ovunque, siamo sommersi da notizie che la riguardano, immagini di morti: sotto questo aspetto per la morte non esistono confini, è preponderante, onnipresente, inesauribile. Ma questa è la morte intesa come rappresentazione, la morte senza corpo, la morte come pensiero e immagine, la morte come spirito. Questa morte equivale alla morte del nome, all’incorporeo a cui si fa riferimento quando si usa il nome di una persona defunta. Perché, mentre il nome, finché l’essere umano che esso denota è ancora in vita, si riferisce al corpo, ovunque quest’ultimo si trovi e indipendentemente da cosa stia facendo, il nome si separa dal corpo quando esso muore, per rimanere tra i vivi, che con il nome indicano sempre quello che era il defunto, mai ciò che è adesso, un corpo che si sta putrefacendo da qualche parte. Questa componente della morte che appartiene al corpo ed è concreta, fisica, materiale, questa morte viene tenuta nascosta con una tale meticolosità da assomigliare a una specie di frenesia, e funziona, basta sentire come si esprimono di solito le persone che sono state testimoni di incidenti mortali o omicidi.

Dicono tutti la stessa cosa, è stato qualcosa di assolutamente irreale, anche se quello che vogliono dire è esattamente il contrario. Era così reale. Ma non viviamo più in quella realtà. Per noi tutto si è capovolto, per noi il reale è irreale, l’irreale reale. E la morte, la morte è l’ultima grande istanza di ciò che è al di fuori. Ecco perché dobbiamo tenerla nascosta. Perché la morte è senza dubbio al di là dl nome e al di là della vita, ma non è al di là del mondo.

………

 


Guillaume Apollinaire (1880 - 1918) scrittore e poeta

L'Eresiarca & C.  Guanda

IL SACRILEGIO

Padre Seraphin, il cui nome monastico stava al posto di quello di una illustre famiglia bavarese, era alto e magro. Aveva una pelle bruna, dei capelli biondi e degli occhi d'un azzurro ruscello. Parlava il francese senza nessun accento straniero e soltanto quelli che lo ascoltavano dir messa potevano sospettare la sua origine francone, in quanto il padre pronunciava il latino alla maniera tedesca.
Destinato dapprima alla carriera militare, aveva portato l'uniforme della cavalleria leggera per un anno dopo essere uscito dal Maximilianeum di Monaco, dove si trova la scuola dei cadetti.
Essendo stato precocemente deluso dalla vita, l'ufficiale si era ritirato in Francia in un convento della regola di San Francesco e dopo poco tempo ricevette gli ordini.
Nessuno conosceva i fatti che avevano spinto Padre Seraphin a rifugiarsi fra i monaci. Si sapeva soltanto che sul suo avambraccio destro c'era tatuato un nome. Dei ragazzi del coro l'avevano letto mentre il padre pregava e le larghe maniche della sua tonaca ricadevano. Era un nome di donna: Elinor, che è anche un nome di fata negli antichi romanzi di cavalleria.
Qualche anno dopo gli avvenimenti che avevano mutato in francescano francese un ufficiale bavarese, la reputazione di Padre Seraphin come predicatore, teologo e casista giunse fino a Roma, dove lo chiamarono per incaricarlo della delicata funzione di avvocato del diavolo. Padre Seraphin prese sul serio il suo compito e durante la sua avvocatura non ci furono affatto canonizzazioni. Con una passione che, se non fosse stato per la santità del perso surebbe potuta credere satanica. Padre Seraphin mi
taie accannento nei combttere ia canonizzazione del Beato Jeròme de Stavelo, che da allora non se ne parla più.
Dimostrò. anche che le estasi della Venerabile Maria di Betlemme erano delle crisi isteriche. I Gesuiti ritirarono da se stessi per paura del terribie avvocato del diavolo, la causa di beatificazione di Padre Jean Saillé. dichiarato venerabile fin dal XVIII secolo. Quanto a Juana del Licbregat, la merlettaia di Maiorca la cui vita trascorse in Catalogna ed a cui sembra la Vergine è apparsa aimeno trenta volte, sola o accompagnata ora da santa Teresa d'Aviia ora da sant'Isidoro, Padre Seraphin scopri nella sua vita tali punti deboli che gli stessi vsovi spagnoli hanno rinunciato a vederia dichiarata venerabie, ed ii suo nome è ormai invocato soltanto in certe case di Barcellona particolarmente malfamate.
Irritati dal fanatismo con cui Padre Seraphin insozzava i meriti dei defunti che essi onoravano, gli Ordini interessati a queste sante cause si misero a brigare perché fosse sollevato dal suo incarico. E quale vittoria! Dovette ritornare in Francia, seguito dalla sua strana reputazione di avvocato del diavolo. Tutti rabbrividivaro ascoltando le sue prediche sulla morte e sull'inferno. Quando aizava il braccio, la sua mano destra, che aveva soio il medio e l'anulare, perché le altre dita mancavano, non si sa per quale caso della sorte, sembrava la testa cornuta d'un diavolo nano. Le lettere bluastre del nome Elinor, leggibii da lontano, parevano una bruciatura
infernale, e quando pronunciava alla gotica qualche frase latina, i devoti si segnavano tremando.
A furia di frugare nella vita dei futuri santi, Padre Seraphin aveva finito col disistimare tutto ciò che è umano; disprezzava tutti i santi, credendo che non avrebbero potuto esserlo se lui avesse espletato la sua funzione all'epoca del loro processo di canonizzazione. Sebbene non lo confessasse, il culto di cui sono oggetto come servi di Dio gli sembrava
pressoché eretico; perciò invocava soltanto, il più possibile, le persone della Santissima Trinità...
Non si negavano affatto le sue alte virtù, ed era quindi divenuto il confessore ordinario dell'arcivescovo. Vivendo in un'epoca di anticlericalismo, Padre Seraphin non poteva mancare di cercare dei mezzi per rimediare all'universale irreligiosità. Le sue meditazioni lo portarono a escludere che l'intervento dei santi potesse qualcosa presso la Divinità:
"Perché il mondo ritorni a Dio -- si diceva - bisogna che Dio stesso ritorni tra gli uomini ».
Una notte, essendosi svegliato, si meravigliò:
«Come ho potuto bestemmiare? Non abbiamo forse Dio perennemente tra noi? Non abbiamo forse l'Eucarestia che, se tutti gli uomini se ne nutrissero, distruggerebbe l'empietà sulla terra? »
Ed il monaco si alzò, già vestito della sua tonaca di rozzo panno; attraversò il chiostro addormentato, svegliò il frate portiere e lasciò il convento.
Le strade erano scure, gli straccivendoli sembravano dei fuochi fatui a causa della loro lanterna, e i lampionai si affrettavano verso le fiamme di gas che danzavano ancora ai crocicchi.
A volte luccicava lo spiraglio di luce di una panetteria:
Padre Seraphin vi si avvicinava, stendeva le mani e pronunciava le parole sacramentali:
«Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue... », consacrando cosi intere infornate. 
Spuntata l'aurora, si sentì stanco e riconobbe di aver consacrato una quantità di pane sufficiente a somministrare la comunione a quasi un milione di uomini. Questa moltitudine si sarebbe saziata dell'Eucaristia lo stesso giorno. Grazie ad essa gli uomini sarebbero ridiventati buoni e, fin dal pomeriggio, il regno di Dio sarebbe arrivato sulla terra. Che miracolo, che giubilo!
Il monaco passò tutta la mattinata nelle belle strade e verso mezzogiorno si trovò vicino alla casa dell'arcivescovo.
Molto contento di sé andò a trovare l'arcivescovo che stava appunto a tavola «Accomodatevi, Padre, e pranzate con me: siete venuto assai a proposito ».
Padre Seraphin s'era seduto e, aspettando che lo servissero, guardava il pane che s'allungava sulla tovaglia. L'arcivescovo ne aveva tagliato un pezzo e la fetta pareva rotonda e bianca come un'ostia. L'arcivescovo portò alla bocca un boccone di carne e del pane, poi continuò:
Siete venuto assai a proposito: avevo bisogno dei vostri
buoni uffici e non ho affatto detto la santa messa questa mattina. Mi confesserdò dopo aver mangiato ».
Il monaco trasalì e guardd l'arcivescovo domandando con voce rauca:
« Monsignore! Un peccato mortale?»
Ma arrivava il domestico, portando dei piatti fumanti che mise davanti al monaco, al quale il prelato raccomandò il silenzio portando un dito alle labbra. Il domestico usci e Padre Seraphin s'alzò e ripeté:
«Un peccato mortale, Monsignore?... e ha mangiato del pane!»
Il vescovo lo guardò sbalordito, arrotolando delle pallottoline di mollica che lanciava verso il soffitto. Pensava:
«Che fanatico! Prenderò un altro confessore».
II monaco continuò:
«Un peccato mortale, Monsignore, ed ha mangiato del pane eucaristico?»
Il prelato negò:
«Avete capito male, Padre: v'ho detto soltanto che questa mattina non ho celebrato la santa messa ».
Ma Padre Seraphin si gettò in ginocchio con le braccia in croce gridando:
« Sono un grande peccatore, Monsignore: questa mattina
ho consacrato tutto il pane in tutte le panetterie della nostra
città. Ha mangiato del pane consacrato. Tanti uomini tra cui molti in peccato mortale hanno mangiato il corpo di Nostro Signore! Il pasto divino è stato profanato per colpa mia, prete sacrilego... »
L'arcivescovo s'era levato in piedi, terribile, gridando:
« Che tu sia colpito da anatema, monaco! »
Quindi, confondendosi nella sua mente l'antica funzione del Padre con delle reminiscenze classiche, declamò:
«Avvocato infame vatem dici »
e replicando con tono spirituale alla maniera dei francesi del XVI secolo:
"Avvocato infame vattene da qui! »
E a questo punto scoppia a ridere.
Ma il monaco non rideva affatto:
«Mi confessi, Monsignore- disse- poi la confesserò io."
Si dettero quindi l'assoluzione a vicenda. Dopodiché, su consiglio del francescano colpevole, vennero attaccati i cavalli alle carrozze dell'arcivescovo ed i domestici, i piccoli abati che popolano i palazzi episcopali, andarono in tutte le panetterie ad acquistare il pane che dovevano depositare nel convento del monaco sacrilego.
Là - i monaci erano riuniti - parlò il Padre guardiano:
« Cosa è diventato Padre Seraphin? Egli era virtuoso. Forse, a somiglianza dei nostri fratelli di un tempo che degli uccelli celesti fecero smarrire e che rimasero in estasi per secoli, ritornerà tra cent'anni... »
I monaci si fecero il segno della croce e ciascuno di essi aveva da citare una storia:
«Uno dei monaci di Heisterbach, che aveva dubitato dell'eternità, seguì uno scoiattolo nella foresta. Egli pensava di esserci rimasto per dieci minuti. Ma tornando al convento vide che i piccoli cipressi che stavano ai bordi della strada erano divenuti dei grandi alberi... »
Un altro disse:
« Un monaco italiano pensò di aver ascoltato soltanto per un minuto il canto di un usignolo, ma tornando al monastero... »
Un giovane monaco cavilloso sogghignò:
« Si citano delle avventure di questo tipo presso i Greci, e chissà? in questi uccelli, nel Medioevo, si era forse trasferita l'anima delle antiche Sirene... »
In quel momento qualcuno bussò alla porta del convento, ed entrarono i piccoli abati dell'arcivescovo portando, con infinite precauzioni, pani consacrati delle più diverse forme.
C'erano dei filoncini lunghi e sottili, dei pani polka simili a scudi rotondi che la crosta faceva apparire fusati d'oro e la farina di cui erano cosparsi d'argento - impastati da panettieri che ignoravano l'arte araldica; dei panini viennesi, simili a pallide arance e pagnotte casarecce chiamate betulle
o spaccate a seconda del loro aspetto.
E davanti ai monaci che cantavano il Tantum ergo i piccoli abati portarono il loro carico nella cappella e ammucchiarono il pane sull'altare...
In espiazione del sacrilegio i preti, ed i monaci passarono la notte in adorazione.
La matina fecero la comunione, e così i giorni seguenti fino alla consumazione delle Specie Eucaristiche che gli ultimi giorni scricchiolavano sotto i denti essendo il pane diventato raffermo...

Padre Seraphin non ricomparve al convento, Nessuno avrebbe potuto dire che cosa ne fosse stato di lui se i giornali avessero riportato la notizia della morte, nell'assalto di Pechino di un anonimo soldato della Legione straniera sul cui avambraccio era tatuato un nome di donna: Elinor, che è anche un nome di fata negli antichi romanzi di cavalleria.


Fernando Pessoa (1888-1935) scrittore

"Il libro dell'inquietudine"   Feltrinelli
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E' tutto assurdo. Costui passa la sua vita a guadagnare soldi che mette da parte, e non ha figli a cui lasciarli né speranza che il cielo gli riserbi una trascendenza di quei soldi.
L'altro invece impegna le sue forze a guadagnare notorietà per quardo sarà morto, e non crede nella sopravvivenza che potrebbe venirgli da una consapevolezza della fama. Quell'altro ancora si affanna alla ricerca di cose che tutto sommato non gli piacciono. E inoltre ce n'è un altro che [...].
Alcuni leggono per conoscere, inutilmente. Altri si divertono per vivere, inutilmente.
Seduto nel tram osservo con calma, com'è mia abitudine, i dettagli dei passeggeri che mi siedono di fronte. I dettagli sono per me cose, voci, lettere. Separo il vestito della ragazza che è davanti a me dalla stoffa di cui è fatto e dalla lavorazione che è stata necessaria a cucirlo (poiché lo vedo come vestito e non come stotta), e il ricamo leggero che orla il colletto mi si divide nel filo di seta ritorto con il quale è stato ricamato e nella lavorazione che c'è voluta per ricamarlo. E immediatamente, come in un libro elementare di economia politica, si aprono davanti a me le fabbriche e le lavorazioni: la filanda dove è stato fatto il tessuto; la filanda dove è stato fatto il filo di seta ritorto, di un tono più scuro, che orla con increspature ricamate la stoffa del colletto; e vedo le sezioni delle fabbriche, le macchine, gli operai, le sarte, i miei occhi rivolti all'interno penetrano negli uffici, vedo i dirigenti che cervano di esser tranquilli, seguo sui libri la contabilità di ogni cosa, ma non è solo questo: vedo, piú in la, le vite domestiche dli coloro che vivono la loro vita di esseri umani in
quelle fabbriche e in quegli uffici... Il mondo intero mi si srotola davanti agli occhi soltanto perché ho davanti a me, sotto un collo bruno che dall'altra parte ha un volto che ignoro, un orlo irregolare-regolare di un verde scuro sopra il verde chiaro di un vestito.
Il consorzio umano nel suo insieme è davanti ai miei occhi. Al di la di questo intuisco gli amori, i segreti intimi, l'anima di tutti coloro che hanno lavorato affinché questa donna che è davanti a me sul tram porti intorno al suo collo mortale la banalità sinuosa di un filo di seta ritorto verde scuro sul tessuto di un verde più chiaro.
La testa mi gira. I sedili del tram, con una trama di una paglia resistentee sottile, mi portano a regioni lontane, mi si moltiplicano in industrie, operai, case di operai, vite, realtà, tutto.
Scendo dal tram esausto e sonnambulo. Ho vissuto tutta la vita.
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46
recensioni
Antonio
10 Gen 2021
Ma allora qualcuno mi legge!
Grazie per i vostri pensieri!
Anna
10 Gen 2021
Bello, Antonio! Ho più volte constatato che le persone autenticamente intellettuali fossero ironiche, libere e spesso molto più modeste di altre. Probabilmente perché giunte al traguardo dell'essenziale
Roberta
10 Gen 2021
...fanno giocare similitudini e parti del patrimonio psichico come altri fanno con i muscoli... mi ha ricordato la presentazione di “La palestra di Platone” di Simone Ragazzoni al Ducale lo scorso autunno. La stretta relazione tra velocità della mente e cura del corpo. L’ipotesi che l’etimologia del nome Platone fosse legata ad indicare colui che ha le spalle muscolose. Ciao a tutti.
Valeria
10 Gen 2021
Grazie a Paul Valery e grazie ad Antonio, che su parole e pensieri ci conduci a costante esercizio!
Mario
01 Gen 2021
Molto bello il brano di Mutis. La mia prima sensazione è che si tratti di uno scritto molto più profondo e "affilato" di analoghi brani che ho trovato in Ilona. Ma non posso eslcudere che questa sensazione abbia a che fare con il modo in cui io leggo i romanzi (mi interessa che cosa succede ai personaggi, non le loro meditazioni). Tornerò su Ilona per fare qualche confronto con maggiore cognizione di causa. Ne riparleremo.
Gli Scompaginati - circolo di lettura - via assarotti 39 - genova ITALY
Gli Scompaginati - circolo di lettura via assarotti 39 - genova ITALY
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