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Presenza di alcuni scompaginati al salone del Libro
Stefano Fonzi

Seconda edizione in presenza, dopo quella "anomala" dell' autunno scorso, caratterizzata da grande partecipazione. Nota confortante la presenza di molti giovani, ed anche un buon numero di giovanissimi lettori. A parte la spinta compulsiva all'acquisto che una kermesse del genere stimola, offerta capillare per ogni settore e un notevole numero di espositori (ma non era in crisi l' editoria?). 
Oltre al tour dei padiglioni, si svolgono numerose presentazioni nelle diverse sale, con molti autori di rilievo. Tra questi abbiamo seguito la presentazione di Nova di Baca`, in corsa per lo Strega. Non è stato possibile seguire Saviano per la folla presente, mentre molto piacevole è stato l'incontro con Andrea Neuman, scrittore argentino, di cui sarebbero proponibili alcuni titoli per gli Scompaginati. 
Per il futuro il consiglio, per chi ha possibilità, è di fare un abbonamento almeno a due giorni, in modo da alternare presentazioni e visite agli stand, che occupano tre padiglioni. 
Stefano

7
recensioni
Valeria
07 Mar 2022
Grazie Silvia di questo denso articolo! Che purtroppo condivido, con la forte sensazione che sia troppo tardi per rispondere oggi alla guerra di Putin con la pace: è per quella del domani che dobbiamo essere attrezzati, perché ognuno di noi se ne prenda cura, in modo vigile, condannando e combattendo per quanto possibile ogni atto che rischi di comprometterla. Perché questa guerra ha preso forma sotto i nostri occhi, e certo non negli ultimi mesi, in assenza di concrete iniziative diplomatiche che ne scongiurassero lo scoppio.

Da REPUBBLICA 16.07.2021

ANSELM KIEFER L’ARTE È VERITÀ TUTTO IL RESTO ILLUSIONE

 

“ Sono nato sotto le bombe, da allora faccio i conti con le macerie della storia” Incomincia così la confessione di uno dei più grandi artisti contemporanei che a Venezia inaugura la sua opera impossibile: coprire il passato con il presente Letteralmente dal nostro inviatoDario Pappalardo venezia Nella Sala dello Scrutinio di Palazzo Ducale, Venezia brucia sulle pareti. Il mare è in tempesta. Il cielo e l’acqua si confondono, così come l’oro e l’argento. Dalla tela emergono minacciosi sottomarini. La bara di San Marco è vuota, tranne che per due girasoli secchi.

L’orizzonte è un paesaggio di guerra su 14 pannelli dipinti che coprono le pitture di Tintoretto e di Jacopo Palma il Giovane, giudizi universali e battaglie di Lepanto. Qui dove si eleggevano i dogi e dove il cardinale Bessarione custodiva la biblioteca, ora c’è Wim Wenders steso per terra a provare le inquadrature, guardando il soffitto. Cerca il cielo in una stanza sulla laguna, non più sopra Berlino. Il protagonista del prossimo film non è un angelo, ma questo signore alto che adesso entra dalla porta in fondo, con la giacca scura e la camicia bianca, il mantello da mago e lo sguardo da filosofo. Anselm Kiefer ha appena concluso l’impresa impossibile di portare le sue nuove, mastodontiche pitture nelle sacre stanze della Serenissima, coprendo la storia di ieri con quella di oggi. Il risultato è Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce,una mostra aperta fino al 29 ottobre che prende il titolo da Andrea Emo (1901-1983), pensatore italiano solitario e dimenticato, e che nelle intenzioni della direttrice dei Musei Civici Veneziani Gabriella Belli (curatrice con Janne Sirén) nasce «per realizzare un progetto di arte pubblica nel senso più semplice del termine: pittura come strumento per la collettività».

Kiefer controlla la luce sull’opera che introduce il percorso, fa aprire una finestra: «Ora va bene».

Attraversa la Sala del Gran Consiglio con i turisti che ignorano il cantiere delle meraviglie pochi metri più in là, si muove a suo agio nel labirinto di porte, scale e corridoi. «Venezia è la sintesi — dice — la concentrazione in un unico luogo di Oriente e Occidente, di nord e sud, di potenza e decadenza, vittorie e sconfitte, a Creta come in Dalmazia… Porto sempre libri con me. Li scelgo a caso, se si può dire così. È la prima cosa che faccio la mattina nel mio studio, appena sveglio. Quando sono arrivato qui per il sopralluogo, due anni fa, avevo in tasca la seconda parte del Faust. E così ho capito che Venezia è come la Elena di Troia rievocata da Goethe: è la cultura classica che riesce ad adattarsi alla nuova metrica, è una storia che continua sempre».

C’è un senso nella storia?

«Sì, c’è, ma è un senso che cambia per ciascuno di noi.

La storia è come l’argilla. La plasmiamo a nostro modo perché non esiste nella sua verità oggettiva.

Oggi Vladimir Putin si è costruito un senso della storia tutto suo. Ma per conoscere davvero che cosa è accaduto occorre studiare tutti i punti di vista. A me interessa come gli artisti si rapportano alla storia, che cosa ne fanno».

Nei suoi dipinti la storia è guerra. I paesaggi ne portano le tracce.

«Il paesaggio non è mai innocente. Se guardiamo bene, porta sempre reminiscenze di catastrofi, di guerre».

Questa sua considerazione dipende dal fatto di essere nato nella Germania nazista, tra i bombardamenti e le rovine?

«Esatto. La notte in cui sono nato in ospedale, l’8 marzo 1945 a Donaueschingen, è la stessa in cui la nostra casa è stata bombardata. Se non fossi nato quella notte, la mia famiglia si sarebbe estinta. Ci siamo spostati in una seconda casa, ma quella bruciata è stato il mio primo campo di giochi, tornavo sempre lì: il più meraviglioso playmobil che un bambino potesse avere. Ai miei occhi le rovine erano fantastiche e piene di potenzialità. Rappresentavano la realtà. Per me sono state l’inizio, non la fine».

Che cosa può fare un artista in tempo di guerra?

«L’altra notte ho sognato di discutere con Putin, ma non ricordo bene, non potevo esprimermi, sentivo un senso di impotenza e frustrazione.

Da artista non posso fare nulla per fermare il conflitto. Come tutti, mi informo il più possibile, leggo i giornali. Il mio lavoro è sempre stato consapevole della guerra. Il problema è nell’essere umano. Nel 1989, nel mio Paese è crollato il muro. Nel 1991 è stata la volta dell’Unione Sovietica. In quel momento la politica avrebbe potuto cambiare il suo corso; c’era la possibilità di cooperare per una pace mondiale, ma l’Occidente ha preferito mostrare ancora una volta i muscoli. E così oggi siamo al paradosso per cui vantiamo le armi più sofisticate, ma una dialettica politica primitiva.

Soltanto poco tempo fa, Barack Obama definiva la Russia una “potenza regionale”… La guerra c’è sempre stata. Vogliamo parlare dell’Afghanistan, della Siria? La differenza è che ora, con l’invasione dell’Ucraina, noi europei la sentiamo più vicina. Ma dagli anni Sessanta viviamo una minaccia nucleare costante».

Come artista prova un senso di fallimento?

 

«Quando inizio a lavorare a un nuovo dipinto, so già che è un fallimento. Da giovane, tra gli anni Sessanta e Settanta, ero frustrato e deluso per questo, ma ora conosco il processo. I miei vecchi dipinti sono come cadaveri. Nel mio studio in Francia, li tengo chiusi in un container in attesa della resurrezione. A volte li tiro fuori per vedere come sono cambiati, che cosa ne è stato di loro lontano da me: ed è l’aspetto più interessante.

L’obiettivo non è l’opera, ma il movimento. Per Andrea Emo l’essere è la presenza perfettamente reale del nulla. Non c’è cronologia, ma simultaneità. L’opera d’arte contiene già la sua negazione. È un’idea che condividevo con Emo ancora prima di conoscere il suo pensiero. E, prima di preparare la mostra, non sapevo che il Salone dello Scrutinio fosse stato in passato teatro di un incendio. Il titolo Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce è perfetto anche per questo».

Quando ha scoperto Andrea Emo?

«Sei anni fa, grazie a un libro di frammenti pubblicato in Germania da Massimo Donà, con una prefazione di Massimo Cacciari. È stato come trovare una teoria della mia arte. Emo sostiene che la parabola di Gesù Cristo si sia compiuta effettivamente sulla croce. La resurrezione è la croce stessa. Al filosofo ho dedicato una mostra in Francia, nel 2018, e dopo quel libro di Emo è andato esaurito».

La filosofia è parte essenziale della sua vita.

«Martin Heidegger, Michel Foucault, ma anche Roland Barthes… nel 2010 mi è stato chiesto di tenere lezioni al Collège de France come gli ultimi due. È stato un grande onore».

Nella sua arte ci sono costanti riferimenti all’alchimia, il retaggio di un sapere ancestrale.

«Ho lavorato molto sull’alchimia, che è stata la prima strada verso la chimica. L’alchimia e la scienza erano connesse, pensiamo a Isaac Newton. Poi la prima è stata banalizzata e svalutata. Eppure l’obiettivo dei veri alchimisti non era la realizzazione dell’oro: non erano interessati alla materia, ma alla trasformazione dello spirito. Anche il pittore è un alchimista».

La scala di Giacobbe è un simbolo che ricorre in tante sue opere, anche qui a Venezia c’è.

«La scala è un simbolo fondamentale della mistica ebraica. A me interessa il fatto che una scala si possa percorrere verso l’alto come verso il basso. Verso il cosmo o verso l’interno di noi stessi. Possiamo scegliere se allontanarci da noi o studiarci e riconoscerci nel profondo. Per entrambe le strade ci vuole un’immaginazione potente: sia per vedere miliardi e miliardi di galassie che per apprezzare le particelle infinitesimali di cui siamo fatti».

Da dove viene la sua arte? Ha sempre voluto essere un artista?

«Da piccolo, in realtà, volevo diventare Papa: ero serissimo. Ma tutti mi scoraggiavano, dicendo che sarei dovuto nascere italiano, per un tedesco sarebbe stato impossibile: non c’era stato ancora Ratzinger. Ho sempre dipinto molto. A sedici anni, mi è solo venuto il dubbio della scrittura, era la mia alternativa di vita. Scrivo ancora tanto, ma non si tratta di cose che intendo pubblicare.

Conservo metri e metri di diari».

Che cosa scrive sui suoi diari?

«Quando ho un problema o un dolore, scrivere sul diario è la mia maniera di riflettere, di parlare con me stesso, di chiedermi perché ho fatto questo o quello. A volte scrivo i sogni, che cambiano con gli anni. Da giovane sognavo sempre l’acqua. Ora i miei sogni hanno a che vedere con il senso dell’orientamento».

Stavolta che libri ha portato a Venezia?

«Le poesie di Hölderlin e di Nietzsche e poi Borges, Brodskij e ovviamente Emo. Da poco ho letto le ultime poesie di Pasolini che sono appenastate pubblicate in Germania. Mi piace molto Pasolini, il suo cinema, così come Fellini.

Qualche notte fa, sono incappato per caso nella Strada e non sono riuscito a staccarmi, anche se volevo dormire: che film fantastico, che bianco e nero straordinario...».

Che cosa ama rivedere dell’arte italiana?

«Ogni volta che torno a Venezia, vado a rivedere Tintoretto alla Scuola Grande di San Rocco. Mi piace e diverte anche Piero Manzoni: alla Galleria Continua di Parigi ho rivisto da poco la suaMerda d’artista. Ma Tintoretto è di gran lunga il mio artista preferito con quelle figure in movimento, quella capacità di riempire lo spazio come nessuno… qui a Palazzo Ducale mi hanno chiesto di esporre il mio lavoro coprendo laparete dove si trova il suo. Come avrei potuto dire di no? Magari il mio dipinto finirà per modificarlo e influenzarlo. I quadri tra loro interagiscono».

Wim Wenders è qui per completare un documentario su di lei. Che effetto le fa?

«Che cosa dire? Penso che Wim abbia realizzato film stupendi. In Germania, siamo diventati famosi nello stesso periodo. Negli anni Ottanta, venivamo sempre invitati insieme nei talk show. Io alla fine non andavo mai. Non so nulla del documentario che sta facendo su di me.

Veramente nulla. Ogni tanto mi riprende, ma chissà. Amo molto il lavoro che ha fatto su Pina Bausch. Ecco, se il film su di me venisse così, andrebbe benissimo».

Adesso che le opere a Venezia sono installate, ora che la fatica è finita, per una volta è soddisfatto?

«Non sono mai soddisfatto. Ho dipinto decine e decine di tele, oltre a quelle scelte per Venezia: saranno esposte a Los Angeles in novembre alla Marciano Art Foundation. Ma ogni volta vorrei cambiare tutto. Buttare le opere nella laguna, dopo la conclusione della mostra, sarebbe meraviglioso. Parafrasando le parole di Andrea Emo: una volta affondati, questi dipinti produrrebbero ossigeno (

ride)

».

A che cosa serve l’arte?

«L’arte e la poesia sono le sole cose vere. Il resto è illusione».

 


3
recensioni
Roberta
13 Giu 2021
Cari Scompaginati è con vero piacere che trovo in primo piano l’intervista alla Ciabatti. Ieri l’ho letta e ho avuta voglia di scriverne sulla chat, ma poi ho temuto di attirare critiche e ho lasciato perdere. Ora però scrivo. Ho letto a suo tempo “La più amata”, l’ho trovato brutto e noioso, non solo, ho pensato che fosse molto autobiografico in qualche modo e che l’autrice fosse una persona a cui è stato fatto molto male, con un Edipo non risolto e altro. Ma questo in fondo non significa nulla, molti scrittori, quasi tutti coloro che ci donano il miracolo dell’arte, hanno problemi psicologici o più gravi. La Ciabatti mi è risultata profondamente antipatica. Mi ha portato ad avere in antipatia il suo libro anche materialmente. Non mi era mai capitato. Allora leggendo le sue risposte, considerando puerile il suo esternare lo scontento e la pena dell’esclusione, ho notato che due volte tocca il tema: temevo di risultare antipatica. Ecco tutto qua. Mi sono perdonata per il mio fastidio verso di lei perché ho capito che è antipatica a se stessa. Vi prego di perdonare quella che può sembrare una carenza di carità cristiana da parte mia.

CORRIERE DELLA SERA - 12.03.2022

Nostalgici dell’Urss e partito della «resa umanitaria»: in Italia la nuova alleanza dei putiniani


Antonio Polito


Sta emergendo un movimento a favore del tiranno. L’obiettivo è portare l’Italia nel campo di Mosca, sostenendo che «arrendersi è un dovere morale».


Il «partito della resa» ha gettato la maschera. È ancora minoritario, ma punta ormai al bersaglio grosso: portare l’Italia nel campo di Mosca, confermando così l’antico pregiudizio per cui non finiamo mai una guerra dalla parte in cui l’abbiamo cominciata. Abbandonata l’equidistanza iniziale del «né con Putin, né con la Nato», superata la «neutralità attiva», sta venendo infatti allo scoperto un movimento, per ora più mediatico che altro, di sostegno esplicito al tiranno. Tenterà di sfruttare l’angoscia e la paura degli italiani per aiutarlo a vincere la guerra in Ucraina.


Il successo che finora non ha ottenuto sul campo, a causa della sorprendente resistenza ucraina, Putin può infatti raggiungerlo in un altro modo: se cede il fronte interno dell’Occidente, e si raffredda il sostegno alla causa di Kiev.


Così in marcia con Putin è tornata pure la «vecchia guardia», un’attempata ma intellettualmente dotata pattuglia di nostalgici dell’Urss, per i quali la sua caduta è stata «la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo». L’Economist ha dedicato la copertina alla «stalinizzazione» di Putin: sempre più aggressivo fuori dai confini, sempre più dittatore in patria, dove si rischiano quindici anni di carcere a chiamare «guerra» la guerra. Magari il paragone è un po’ esagerato, anche se lo stesso Putin l’ha evocato dicendo di voler «denazificare l’Ucraina». Ma di sicuro ha galvanizzato i nostri ex bolscevichi in sonno: per loro la colpa è degli ucraini. E allora basta commuoversi — l’ha detto Luciano Canfora — «con la storia di Irina che perde il bambino, un caso particolare»: ciò che conta è la Storia con la S maiuscola, e quella cammina sui cingoli dei carri armati, e chi più ne ha vincerà.


La «new entry» tra i putinieri di complemento sono invece quelli della «resa umanitaria». Sostengono che arrendersi è un dovere morale (era il titolo di apertura del Riformista di ieri), per risparmiare vite e sofferenze. È un’altra forma di «spaesamento etico» che nasce a sinistra, solo in apparenza più pacifista della versione neo-stalinista, perché è proprio per averla avuta vinta in Georgia, in Crimea, nel Donbass, in Siria, che Putin si è deciso a fare di nuovo la guerra, e su più larga scala. La resa è la droga dei tiranni: più ne avranno e più ne vorranno. L’unico difetto di questa proposta è che i diretti interessati, gli ucraini, non sembrano condividerla. Bisognerebbe insomma costringerli alla resa. Esattamente ciò che sta provando a fare Putin. E così il cerchio si chiude.



Altri cerchi si chiudono invece tra destra e sinistra nel variegato mondo social dell’hashtag #IoStoConPutin. Secondo una ricerca di «Reputation Science», pochi account iniziali hanno alzato un’onda tra tutti coloro che credono a Lavrov quando dice che «questa non è un’invasione», ma non hanno creduto al Covid e alle bare di Bergamo, e prima ancora all’abbattimento delle Twin Towers o allo sbarco sulla Luna. Accomunati dall’odio per l’establishment, l’Europa e la democrazia, eroici combattenti per la libertà degli italiani dal green pass si battono ora per la schiavitù degli ucraini. Se vince Putin, perdono Draghi, Macron e von der Leyen, e tanto per loro basta. Perfino tra i deputati, ovviamente Cinquestelle, ce n’è qualcuno, come tal Lorenzoni, che non vuole Zelensky in collegamento con Montecitorio «perché l’Ucraina è un Paese schierato in guerra».


Al Bano, al confronto, è un gigante. Citiamo la reazione indignata del cantante italiano più amato in Russia («Come non cambiare idea su Putin con quello che sta facendo?») perché la grande maggioranza degli italiani la pensa come lui e non come i nostri putinieri. Ma c’è un ma: la guerra alla lunga porterà anche da noi, se non sangue, sudore e lacrime. Già si parla di razionamenti, di austerity, di un grado o due in meno di riscaldamento, di guai grossi per l’industria agroalimentare e per la spesa. E infatti da qualche giorno la parte più «populista» dei media si concentra sulla benzina piuttosto che sull’Ucraina. Il grande pericolo è che le due spinte, quella politica a favore del tiranno e quella sociale per difendere il nostro tenore di vita già squassato dalla pandemia, si congiungano intorno all’illusione che se la diamo vinta a Putin tutto tornerà come prima. Sbagliato da ogni punto di vista: resteremmo solo dalla parte sbagliata di un’emergenza che non finirebbe certo con la resa dell’Italia. Ma tocca al nostro governo — insieme a quelli dell’Europa — evitare questo corto circuito, mettendo in campo le idee e le risorse necessarie per aiutare tutti a resistere invece che arrendersi: perché nessuno sia tentato di scambiare la libertà altrui con il proprio benessere.

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recensioni
Mario
21 Mar 2021
Una persona costretta alle dimissioni per dei tweet mandati dieci anni fa... questo fanatismo rischia di essere peggiore del razzismo che vorrebbe combattere

Il Natale e la speranza: attendersi l’inatteso

di Tomaso Montanari

Confesso che, negli ultimi tempi, non di rado mi sorprendo a pensare che la principale ragione per cui deve esserci una vita oltre la vita è che tutta questa mostruosa ingiustizia non può averla vinta. Non se ne riesce a sostenere nemmeno la vista, e ogni sforzo per combatterla pare destinato al fallimento. Così, lo ha scritto Max Horkheimer, la teologia è «la speranza che, nonostante tutta questa ingiustizia che caratterizza il mondo, non possa avvenire che l’ingiustizia possa essere l’ultima parola». Una visione altissima, vertiginosa: ma che fa correre almeno due rischi. Il primo è di collocarsi senza tentennamenti tra i giusti: assolti, e anzi giudicanti. Il secondo è di perdere ogni fiducia, e dunque ogni impegno, nella lotta quotidiana per la giustizia sulla terra.

 

È proprio il Natale, invece, a restituirci quella fiducia, grazie alla rinnovata forza con cui ci fa aderire a questo mondo: per quanto orribile, sfigurato, osceno. E tuttavia degno di fiducia, e di speranza.

 

Nessuno, forse, lo ha detto meglio di quella straordinaria intellettuale ebrea laica che è stata Hannah Arendt, in un celebre brano della Condizione umana (1958): «Il miracolo che salva il mondo, il dominio delle faccende umane dalla sua normale, naturale rovina è in definitiva il fatto della natalità in cui è ontologicamente radicata la facoltà dell’azione. È in altre parole la nascita di nuovi uomini, l’azione di cui essi sono capaci in virtù dell’esser nati. Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane fede e speranza, le due essenziali caratteristiche dell’esperienza umana, che l’antichità greca ignorò completamente. È questa fede e speranza nel mondo, che trova forse la sua gloriosa e stringata espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la “lieta novella” dell’avvento: “un bambino è nato per noi”».

 

È tutta immanente la fede della Arendt: fede e speranza «nel mondo». Nulla si rimanda a un altrove, o a un aldilà: la salvezza sta nell’incarnarsi. Cioè nel porre mano al cambiamento radicale: e prima al dubbio, al pensiero critico, alla rivolta. Non isolandosi, non chiudendosi, non fuggendo: ma compromettendo tutti noi stessi, la nostra carne sanguinante e dolente, nello sforzo, quotidiano e senza sconti, di essere più umani. Perché chi vorrà salvare (cioè risparmiare) la propria vita, la perderà: e chi invece sarà disposto a metterla in gioco senza riserva, ebbene proprio lui la salverà – come Gesù ricorda ai discepoli che lo trattengono dal salire a Gerusalemme, dove sarà ucciso.

 

Il Natale, dunque, come festa della vita compromessa, messa in gioco. Perché cosa altro è la nascita di un bambino se non un atto di fiducia e di speranza nella possibilità che quella vita cambi tutto? Il Natale come festa della luce che, nonostante tutto, non è vinta dalle tenebre: quel sol invictus che gli antichi celebravano nella prossimità del solstizio invernale. La festa di una umanità che contesta la morte, e che nel momento del massimo buio indica con fede e speranza (nel mondo, in se stessa) la piccola luce che resiste, e che inizia pian piano ad espandersi. Proprio come la vita di una bambina o di un bambino che viene al mondo. Per i cristiani è il Dio lontano e onnipotente che accetta di assumere carne, dolore e morte delle creature: insieme assumendone anche la capacità di sentire il calore del sole sulla pelle, il sapore del vino, la voglia di arrostire del pesce in riva al mare aspettando gli amici su una spiaggia (lo farà quel Bambino, ormai diventato adulto, subito dopo la sua resurrezione). Per tutte e tutti è il segno di un orizzonte creaturale che muta la paternità in fraternità, il dominio in condivisione, il possesso in custodia.

 

Il Natale, dunque, è il segno di una lotta per la giustizia non in un altro, ma in questo, mondo.

 

Perché, scrive ancora Arendt, «il fatto che l’uomo sia capace d’azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile. E ciò è possibile solo perché ogni uomo è unico e con la nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo nella sua unicità».

 

In un mondo sotto il tallone di una pandemia che non accenna ad allentare la presa, in una umanità che attraverso la sua mostruosa ingiustizia e diseguaglianza offre alla pandemia la possibilità di distruggerla, in un Paese schiacciato da una indegna oligarchia, senza politica e senza democrazia, è ancora possibile avere fede e speranza nel mondo? È necessario, ci ricorda Hannah Arendt. E la sua citazione letterale dal Vangelo cristiano, la “lieta novella”, suggerisce che è possibile amarlo, questo mondo.

 

La festa del Natale è, davvero per tutte e tutti, una festa che parla dell’essere nella carne: cioè la festa dell’abitare il mondo pienamente.

 

Non per caso Francesco d’Assisi amò in modo tutto speciale il Natale: perché in quel Bambino che veniva a compromettersi col mondo vedeva la massima realizzazione di quell’adesione totale alle creature che lo spinge a scrivere uno dei testi più alti della prima letteratura italiana in volgare. L’amore per la luna e per le stelle, «clarite et pretiose et belle» e quello per il fuoco «bello et iocundo et robustoso et forte», l’amore per il «vento, e per l’aria e per il cielo; per quello nuvoloso e per quello sereno, per ogni stagione». Una gioia di vivere proiettata verso la trascendenza del Creatore, e però capace di parlare, anche al più ateo, della bellezza fisica e sensuale del mondo che si tocca con le mani, che si vede con gli occhi del corpo.

 

La lieta novella è che siamo nati: che siamo qua, che possiamo agire contro «la naturale rovina» del mondo.

 

Davvero un indulto, una sospensione del pessimismo, una pausa nell’amarezza per quel che facciamo al pianeta e al genere umano. Un conflitto aperto contro tutta l’ingiustizia che sfigura la bellezza del mondo e dell’umanità. Un’occasione per tornare ad assumere lo sguardo dei bambini: candido e concretissimo insieme.

 

Questo, dunque, il Natale: una festa dell’amore per la vita, che non riesce ad essere distrutta dall’orgia consumistica, o dalla retorica dolciastra. Perché tutto travolge la verità rivoluzionaria per cui «ogni uomo è unico, e con la nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo nella sua unicità».

tratto da www.ilblogdienzobianchi.it/blog-detail/post/148813/

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recensioni
Valeria
05 Ott 2020
Mario sei unico.... :))

Da REPUBBLICA 23.03.2021

Raffaella De Santis


I MAGNIFICI 12 NELLO STREGA DELLE POLEMICHE 


Esclusi subito a sorpresa dalla gara Lattanzi, Mannocchi e Picca Favoriti per la cinquina Bajani, Bruck, Ciabatti, Di Pietrantonio e Trevi Che la festa inizi, o la guerra, vedremo. Di sicuro con l’annuncio dei dodici finalisti dello Strega si apre la gara vera e propria, quella delle carezze o delle sciabolate. Già in questa fase preliminare non mancano le sorprese. Sono rimasti fuori romanzi di qualità e nomi eccellenti, tra i quali Bianco è il colore del danno di Francesca Mannocchi (Einaudi Stile Libero) e Il più grande criminale di Roma è stato amico mio di Aurelio Picca (Bompiani). È evidente che il comitato direttivo incaricato della selezione ha voluto semplificare la vita agli editori, permettendogli di far convergere le energie verso un unico titolo. Certo non era facile decidere partendo da sessantadue proposte, ma basta un giro sui social per capire che è già polemica. Il più diretto dei sacrificati è Picca, che ridendo, al telefono commenta: «Sono troppo scandalosamente uno scrittore vero per partecipare allo Strega. Sapevo che mi avrebbero impallinato prima perché con me in gara non sapevano cosa sarebbe potuto succedere». Da questo momento si apre la corsa verso la cinquina e gli uffici marketing editoriali valutano le strategie. Chi entrerà in cinquina? Sicuramente i grandi editori, i favoriti della vigilia. Per Einaudi ci sarà Borgo Sud di Donatella Di Pietrantonio, romanzo sulle complicazioni dei rapporti familiari che si riallaccia al bestseller L’Arminuta , e per Mondadori Sembrava bellezza di Teresa Ciabatti, protagonista una scrittrice fragile e forte, viziata e generosa. La competizione sarà serrata. Einaudi non conquista il podio dal 2017, l’anno di Paolo Cognetti, e Mondadori dal 2012, quando si affermò con Alessandro Piperno. Il duello, che alla vigilia pareva certo, non è scontato. Per Neri Pozza partecipa un papabile al trono, Emanuele Trevi : Due vite narra la storia d’amicizia tra l’autore e gli scrittori Rocco Carbone e Pia Pera. E la Nave di Teseo, nonostante la vittoria fresca di Sandro Veronesi, ha tirato fuori dal cilindro Il pane perduto di Edith Bruck, libro testimonianza sulla Shoah che potrebbe sparigliare le carte. È un candidato in odore di cinquina anche Andrea Bajani con Il libro delle case , presentato da Concita De Gregorio, titolo suggestivo, i diritti venduti in quindici paesi. Tra i finalisti Maria Grazia Calandrone con Splendi come vita (Ponte alle Grazie) e Giulia Caminito con L’acqua del lago non è mai dolce (Bompiani). Per Ponte alle Grazie è in gara anche Lisa Ginzburg con Cara Pace . Nel gruppo dei dodici c’è inoltre Giulio Mozzi con Le ripetizioni (Marsilio), che per decisione del comitato non potrà però partecipare allo Strega Giovani perché giudicato adatto «esclusivamente a un pubblico di soli adulti». Lo scrittore quando lo contattiamo non se ne lamenta: «Non giudico la decisione e la rispetto. Sono consapevole che nel mio romanzo ci sono scene che possono indurre turbamento. Non è una censura». Se ci sarà, come lo scorso anno, una cinquina a sei, uno dei finalisti in quota piccoli editori potrebbe essere ripescato: La casa delle madri di Daniele Petruccioli (TerraRossa); Adorazione di Alice Urciuolo (66thand2nd) e L’anno che a Roma fu due volte Natale di Roberto Venturini (Sem). In totale sono rimaste in gara 7 autrici e 5 autori. Ma veniamo alle grane. Stavolta il tono della gara è nelle mani degli esclusi illustri. Prima fra tutti Francesca Mannocchi, proposta da una sponsor autorevole come Renata Colorni. Twitter è un’onda di affetto. In un post Concita De Gregorio: «Avrei trovato giusto e sarei stata felice che il Bianco fosse in dozzina. È un libro amato, importante e bellissimo. Avrà lunga vita». Mannocchi al telefono è asciutta: «Eravamo 62, dozzina significa 12, quindi 50 rimangono fuori. Commenta la matematica». Si ferma pure Alessandra Sarchi ( Il dono di Antonia , Einaudi Stile Libero). Forse neanche Antonella Lattanzi ( Questo giorno che incombe ) aveva messo in conto di non farcela. Per lei parla sui social l’editrice di HarperCollins Italia Laura Donnini: «Increduli e dispiaciuti per la decisione del Premio Strega di escludere dai 12 candidati Antonella Lattanzi. Il riconoscimento della critica, dei lettori e la motivazione con cui Starnone lo ha presentato ci lasciavano ben sperare. Amarezza». L’editor Carlo Carabba scrive nella pubblica agorà social di «aver vissuto il suo più grande dispiacere professionale ». Il solo a dare voce alla delusione è Aurelio Picca, che al telefono ironizza: «Sono invidiosi dei miei sei milioni e 600 mila globuli rossi. Ma non abbandonerò gli Amici della Domenica. Mi tengo il voto come l’antica tessera di povertà». Loredana Lipperini ( La notte si avvicina ) risponde con fair play alla sua community: «Non vi dirò che non sono dispiaciuta ma stare alle regole significa anche mettere in conto il dispiacere». Eliminati anche La felicità degli altri di Carmen Pellegrino (La nave di Teseo) , Disordini di Michele Ainis (La nave di Teseo) e Al passato si torna da lontano di Claudio Panzavolta, unica proposta in campo per Rizzoli. Fuori pure Fazi ed e/o. Il regolamento prevede che per la cinquina ogni giurato possa esprimere tre preferenze. Ora la palla sta ai libri, e naturalmente agli editori. Ha ragione Melania Mazzucco, presidente del comitato direttivo Strega, a notare che nei libri di quest’anno è innegabile un ritorno alla dimensione privata. La pandemia non si affaccia, ma già il mondo viene osservato da dietro le finestre. Mozzi non corre per lo Strega Giovani Il suo libro è stato giudicato solo "per adulti"

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recensioni

Da REPUBBLICA 27.03.2021

Marco Ansaldo


PAMUK: SULLA TURCHIA E SUL SUO NUOVO LIBRO

L’intervista con il premio Nobel per la letteratura di Marco Ansaldo «Il governo turco tradisce le idee libertarie e vira nettamente sul conservatorismo. Il ritiro appena fatto dalla Convenzione di Istanbul sulla difesa delle donne dalla violenza è un voltafaccia imbarazzante, senza vergogna. Il mio nuovo romanzo sulla peste di inizio Novecento parla anche dell’autoritarismo. E l’isola dove immaginariamente si svolge la vicenda non è lontana dalla mia Istanbul». La casa di Orhan Pamuk che si affaccia sul Bosforo guarda, in lontananza, Buyukada, l’Isola grande dove lo scrittore più famoso della Turchia passa le vacanze estive. Lì non ci sono auto, nelle strade che profumano di sale passano ancora le carrozze tirate dai cavalli, e i ristorantini piazzano i tavoli a un solo metro dal mare. Dentro casa, nella sterminata sala divisa in due, ci sono scatole di cartone zeppe di volumi. L’editore Yapi Kredi ha stampato 300 mila copie del libro di Pamuk "Veba Geceleri" (Le notti della peste), un record assoluto per la Turchia, in attesa che il romanzo venga pubblicato il prossimo anno anche in Italia da Einaudi. Quattro di queste copie stanno ordinatamente impilate sul tavolo spoglio da dove il premio Nobel per la Letteratura parla a Repubblica. Orhan Pamuk, perché la peste come soggetto? «Perché è un tema che mi ossessiona, letteralmente, da anni. È uno di quegli argomenti che contiene tutti i temi a me cari: il confronto tra classi sociali, la modernità, l’islam politico, le identità nazionali. E poi i sentimenti: l’amore, la rabbia, la gelosia». Esce adesso, in piena pandemia mondiale. Diranno che ci ha marciato. «Ho avuto molta ansia per questo. Ho cominciato a scrivere questo libro 5 anni fa. Ci sono anche dei video su YouTube che mostrano conferenze del 2018 in cui annunciavo il nuovo soggetto. No, la gente sa distinguere e sa che sono uno scrittore lento. Non ho certo bisogno di inseguire l’attualità. Però questa congiuntura mi ha fatto riflettere». La storia a quando risale? «Ai primi anni del Novecento, sotto l’Impero ottomano, in questa isola del Mediterraneo fra Creta, Cipro e Rodi. L’ho chiamata Minger, che è in parte Buyukada, con le sue strade, il porto, l’ufficio postale, le trattorie, l’edificio del comune». Che cosa si era posto come obiettivo? «Parlare dell’Impero ottomano, non per esaltarlo, ma per fare una descrizione quasi elegiaca della sua scomparsa. Con un po’ di malinconia». Che è il sentimento che pervade tutta la sua opera. E poi? «Mettere a frutto la mia immaginazione. E qui avevo bisogno di un’isola. Come hanno fatto in passato autori a cui mi sono ispirato, Tommaso Moro nell’Utopia, Jonathan Swift con I viaggi di Gulliver, Daniel Defoe con Robinson Crusoe, Albert Camus con La peste, e naturalmente Manzoni con i suoi capitoli sul morbo a Milano nei Promessi sposi. Quello che ho fatto è stato reinventare un’epidemia come quelle avvenute a Londra, a Marsiglia, o nel XVII secolo in Italia». Nel suo romanzo il morbo si diffonde e il primo capitolo si intitola "Il governo nega la peste". «Sa che cosa ho capito facendo le mie ricerche? Che l’umanità compie gli stessi errori. Sempre. In questo caso negando la diffusione del disastro. Eppure ci sono differenze fondamentali fra il mio 1901 e questo 2020: a quel tempo la popolazione era ignorante, non capiva che cosa stesse succedendo. Oggi invece la gente legge, segue di notte la conferenza stampa in tv del ministro della Sanità americano, vede i notiziari online a tutte le ore. Insomma, adesso l’umanità è informata. E questo vuol dire molto sulla consapevolezza dell’opinione pubblica». In Turchia ad esempio che cosa è avvenuto? «Per i primi due mesi il governo ha agito bene. Poi, a maggio, con la perdita progressiva di introiti da turismo e affari, ha cominciato a ingannare la gente. E le persone hanno iniziato a perdere fiducia nelle autorità». E il governo? «Autoritario lo era già prima. Ha usato la peste per una stretta più forte. Come sappiamo, qui non c’è libertà di espressione, se non per pochi. I giornalisti sono messi in prigione facilmente, molti di loro sono miei amici». E quindi si è arrivati alla recente decisione di ritiro dalla Convenzione di Istanbul. Come giudica questa scelta? «Come un passo indietro molto grave, l’ultimo nei confronti delle donne, e del tutto repressivo per loro che si sentono più insicure nelle loro case, dove possono essere picchiate, insultate, terrorizzate dai loro mariti». Eppure è una Convenzione che porta addirittura il nome della principale città turca. Non è una grande contraddizione? «Il governo turco era stato addirittura il primo a firmarla! Nel 2011 la Turchia diceva: venite, difendiamo le donne. E lo faceva con orgoglio. Oggi però fa una giravolta imbarazzante, senza vergogna: non difendiamo le donne. E nega quanto ha siglato, tradendo le idee di libertà». 

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recensioni
Valeria
21 Apr 2020
Brava Clelia, che gioia constatare i preziosi insegnamenti che, al momento giusto, hai tratto dagli amatissimi alberi!
Gli Scompaginati - circolo di lettura - via assarotti 39 - genova ITALY
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