Le vostre opinioni su LA SOCIETA' DELLA PERFORMANCE
Silvia ce ne ha parlato così:
La società della performance è scritto da due filosofi poco più che trentenni, impegnati in una lettura della società in cui viviamo, dei condizionamenti cognitivi e dei fenomeni sociali che portano a conformarci alle sue regole. Un’analisi coinvolgente, anche perchè esprime un punto di vista certamente più vicino alla generazione dei nostri figli che alla nostra - ed è comunque un ponte tra i due.
Si parte dall’affermazione che “È un momento fenomenale in cui vivere. In questi anni sta avvenendo una distruzione di tutte le certezze che hanno sempre accompagnato l’umanità: la memoria del passato non è più scontata, la visione del futuro per alcuni è motivo di entusiasmo, per altri è simile a un’apocalisse, e non ci sono premesse condivise su cosa significhi vivere insieme ad altri esseri umani che hanno idee, pensieri e credenze diverse dalle proprie. E’ avvenuta un’erosione dei punti di riferimento, degli spazi sacri, dei riti di passaggio, del linguaggio e dei diritti (…) E’ proprio per questa ragione che la rabbia e il risentimento sono fenomeni dilaganti: viviamo in un tempo complesso, impossibile da comprendere fino in fondo e una volta per tutte, pieno di forze che ci spingono in direzioni opposte.”
Forse la situazione sopra descritta non è poi così eccezionale, ma ricorre ciclicamente nella lunga vita dell’umanità; tuttavia mi è piaciuto immergermi in questo racconto originale, accompagnata da menti ben più giovani della mia, che utilizzano come falsariga -pur con occhio critico- Platone e la sua caverna, ma anche un mito meno familiare come “Le dieci icone del bue”, tratto dalla tradizione filosofica cinese. E citano Bauman e Thoreau; Tolstoj e Franco Arminio, mio amato poeta dell’appennino abbandonato; Asimov e Foucault; il filosofo sessantottino Debord e le serie TV di Black mirror; Hannah Arendt e Naomi Klein, De Andrè e Nietzsche, Baricco e “Into the wild”; disegnando attraverso questi mondi distanti tra loro un percorso lineare e coerente. Sulla scorta di questi ed altri autori ci si confronta con vecchi e nuovi paradigmi, vecchi e nuovi linguaggi che, dopo averci accompagnato negli ultimi due secoli nella trasformazione da individui a lavoratori e quindi da lavoratori a consumatori, ci portano ora a diventare più o meno consapevolmente dei performer e a trasformarci da soggetti in progetti.
Vi risuona almeno un po’?
Personalmente trovo conferme a questa lettura negli ambiti più quotidiani e disparati, e apprezzo la valenza pedagogica di un’analisi che nell’intento degli autori non vuole tanto “spingerti all’indignazione e alla lamentela, ma alla creatività, alla disobbedienza e alla filosofia di strada. Al divertimento, nel senso più profondo del termine.”
Anche mettendo in discussione i propri pregiudizi (io per esempio ne ho molti) nei confronti dei social e della cultura in rete. Scrivono Cangitano e Colamedici, che definirei “attivisti della filosofia”:
“Far ridiventare la cultura un agente di cambiamento e uno stimolante è una responsabilità di tutti. Non ha più niente a che vedere con l’idea di una formazione universitaria regolare ma con la scelta personale, con la capacità di trovare in ogni cosa uno stimolo per il cambiamento (la sottolineatura è mia). Anche le serie tv e i fumetti oggi possono dirci molto sulla condizione umana e aiutarci a conoscere noi stessi, mentre non è detto che un testo di alta letteratura possa fare lo stesso. Ecco perché ogni volta che siamo di fronte a qualunque prodotto culturale, vale la pena chiederci: è uno stimolante o un tranquillante?”
Al termine del percorso -in merito al quale mi piacerebbe davvero discutere con voi e raccogliere le vostre impressioni- l’atteggiamento utile a superare la gabbia della performance riconoscendone l’assurdità sembra essere quello del ‘flaneur’, il bighellone descritto da Walter Benjamin mentre “passeggia oziosamente come personalità individuale; questo è il suo modo di protestare contro la divisione del lavoro che fa della gente degli specialisti. E allo stesso modo protesta contro la loro laboriosità”.
L’invito che si può raccogliere in coda a questa ‘passeggiata filosofica’ è abbandonare la competizione e indirizzarsi all’incontro, a uno spazio pubblico dove mettere in comune le proprie capacità, ascoltando la vocazione senza identificarsi con i talenti, rispondendo alla cura piuttosto che al guadagno. Sporcandosi le mani, ma anche coltivando la meraviglia, accogliendo l’imprevisto e attuando il reincanto del mondo, delle nostre città, attraverso la politica della bellezza (Hillmann).
Dedico ai nostri scompaginati architetti l’ultima citazione dal libro, commovente parafrasi di Borges:
“Un essere umano si propone di disegnare la città solo attraverso i propri passi. Nel corso degli anni popola uno spazio con immagini di giardini, di strade, di bar, di luci, di fiumi, di palazzi, di vicoli, di astri, di biciclette e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto.
Maura Gancitano, Andrea Colamedici La società della performance. Come uscire dalla caverna, Tlön 2018
(Silvia B.)
Condivido anche la morale della favola, fra il mito della caverna e la storia del bue: invita ad una crescita personale individuale che però deve essere riportata alla irrinunciabile dimensione sociale. Dal salvarsi da solo in un "tutti contro tutti", al salvarsi insieme, in un’interazione di crescita reciproca.
Un saggio breve che legge alcune dinamiche e problematiche del tempo presente e si propone anche come manuale per superarne in parte i limiti. Proprio per la sua brevità non tratta il processo di avvicinamento all’attuale “società della performance”, che è presentata come monolitica, ma cita e rimanda a diverse altre pubblicazioni, che effettivamente danno un quadro molto più articolato delle dinamiche innescate e dello sviluppo degli usi degli strumenti digitali e social.
Lo spunto che mi ha agganciato per ulteriori riflessioni è a partire dallo sciame che si forma attorno ai post che hanno riverbero in rete. Come innestare in questi insiemi variabili ed eterogenei le relazioni fra un punto e un altro? Facciamo parte di costellazioni variabili, che non hanno nome. … Troppo lungo andare avanti! Ne parleremo, se vorrete.